sabato 4 novembre 2017

BLADE RUNNER 2049 (Recensione di N. Da Lio)

Pochi lo ricordano, ma quella pietra miliare della cinematografia mondiale che è 2001 Odissea nello Spazio di Kubrik ha avuto un seguito (2010 L'Anno del Contatto, di Peter Hyams). Ovviamente nettamente inferiore al capostipite, ma comunque un buon film di fantascienza. E questo non ha scalfito minimamente la bellezza di 2001. Con il sequel di Blade Runner ci troviamo di fronte ad una situazione un po' diversa. Perché Blade Runner 2049 di Denis Villenuve non è un buon film di fantascienza: è un ottimo film di fantascienza, e anche un bel film. E riesce ad esserlo non attraverso la strada del paragone con l'inarrivabile capolavoro di Ridley Scott, ma attraverso un intelligente rapporto con esso. Il sequel dialoga infatti con l'originale senza stravolgerlo Innanzitutto ne prosegue la trama (30 anni dopo) rispettandola. La rispetta al punto di incastrarsi sia con la versione cinematografica dell'82 (Deckard non è un replicante, e Rachel può vivere a lungo), sia con le successive Director's e Final Cut (Deckard è un replicante e non conosciamo il reale destino di Rachel). Sapientemente non clona poi la trama del primo: l'indagine per dare la caccia a dei replicanti viene sostituita da un 'indagine per venire a capo di un mistero, quasi come una spy story sulle reali identità dei personaggi. Un'indagine che porta il protagonista (interpretato da Ryan Gosling) e lo stesso spettatore verso false piste, con rivelazioni che si scopriranno con sorpresa per tutti, e scelte narrative coraggiose e non influenzate dalle necessità di incasso.
Altro elemento fondamentale, 2049 è ambientato nello stesso mondo del primo B.R., ma ne allarga la visione. Infatti, solo un quarto di film è girato nella oscura Los Angeles del futuro (ancora completa di insegne vintage come quella di Atari); il resto è ambientato nelle immense distese di campi che circondano la metropoli viste nell'apertura del film, o in una San Fracisco ridotta ad una grande discarica e sede di un orfanotrofio/lager per bambini abbandonati. O, ancora, in una Las Vegas abbandonata a causa delle radiazioni, dove si consuma l'incontro tra il protagonista ed il personaggio di Deckard, interpretato nuovamente da Harrison Ford. Tutti mondi ricreati con set veri e teatri di posa, con pochissima CGI.
Ritroviamo anche qui i replicanti, e di nuovo essi fungono da metafora per l'umanità che siamo noi oggi. Ma non sono gli unici esseri sintetici presenti nella trama: ologrammi che funzionano come sistemi operativi e gestionali, e non solo, si rivolgono direttamente alle applicazioni smart e interconnesse che caratterizzano la nostra quotidianità.
Insomma si può dire che 2049 espande e rispetta l'originale. Lo rispetta soprattutto perché lo lascia come un soggetto autonomo e fruibile nel suo senso originale, sia con la visione del sequel. che senza. Per intenderci, Scott ha stravolto il senso e la trama del suo Alien girando Prometheus e Covenant. Con Blade Runner questo rischio non esiste. E tematiche in comune tra i due film abbondano. Innanzitutto cosa definisce l'umanità di ognuno (attraverso il rapporto con la morte, nel primo, nella capacità di fare una scelta, nel secondo); ma anche il confronto tra reale e virtuale, azzardando ipotesi inaspettate (alla domanda si può amare un costrutto virtuale, la risposta data è affermativa). Come l'originale, 2049 si addentra sul tema dei ricordi, visti come elementi che possono definire un'identità. E ancor di più del primo mette in dubbio la certezza dell'identità di ciascuno, ripescando in pieno un contenuto tipico di Dick, l'autore dal cui romanzo Cacciatore di Androidi fu tratto Blade Runner.
Aggiungiamo: una fotografia stupenda, non più concentrata su toni scuri, ma caldi, e comunque inquietanti e poetici allo stesso tempo; una colonna sonora che si distingue da quella di Vangelis, ma allo stesso tempo ne rievoca la potenza; un mefistofelico Jared Leto e la bella interpretazione dell'emergente Ana de Armas.

domenica 29 ottobre 2017

Blade Runner, 35 anni dopo.... di N.Da Lio

L'arrivo sulle sale di Blade Runner 2049, il (bel) sequel dell'originale film di Ridley Scott, ha riportato l'attenzione su questo emblematico film del 1982. E l'occasione è ottima per rivederlo, e riprendere una riflessione su esso in questo Blog il cui titolo è ispirato ad esso. Perché non stiamo parlando solo di un film. Parliamo del Film, trattandosi una di quelle opere che irrompono nel campo del cinema rinnovandolo, inventando dal nulla un mondo non reale, che è allo stesso tempo una visione del mondo reale, e proiettandolo nell’immaginario collettivo, dove vi rimarrà sempre custodito.
È il Film che ha influenzato ciò che cinematograficamente veniva dopo di esso, anticipando anche quello che stava per nascere in altri campi (il romanziere William Gibson, inventore del genere Cyberpunk, fu quasi colto da infarto vedendo Blade Runner, riconoscendo il mondo che lui aveva ricostruito nel suo primo libro, prima ancora che questo fosse uscito), e ispirando tutta una serie di fumetti, libri e giochi. È il Film i cui dialoghi (e soprattutto il monologo finale di Roy Batty prima di morire) sono stati recitati da un’intera generazione di spettatori. Parte del merito va sicuramente al grande genio letterario di Philip K. Dick, dal cui romanzo Do Androids dream of eletttric Sheep? (Gli androidi sognano pecore elettriche? In Italia anche con il titolo Cacciatore di androidi) fu tratto il film. Bisogna anche dire che con il (bellissimo) romanzo d’origine il film non ha molto in comune: l’idea iniziale, la visione della città decadente del futuro, i nomi dei personaggi principali, e il celebre interrogatorio con il sistema Voight-Kampf, grazie al quale il protagonista Rick Deckard capisce se di fronte a sé ha un’autentica persona o un replicante (o un androide per quanto riguarda il romanzo). Su molti altri elementi il film prende invece strade diverse. Gli androidi del romanzo sono simulacri (per usare un termine Dickiano), versioni distorte degli umani, delle copie che della genia originale hanno gli aspetti più negativi. Rappresentano la meta ultima di arrivo di un'umanità già sprofondata, ma comunque ancora in bilico tra un baratro e una difficile risalita. Insomma, gli androidi come minacciosa evoluzione degli uomini. Incapaci di provare empatia, votati alla dissimulazione e alla violenza. Nel film invece i replicanti proprio per la loro natura aliena, diventano più umani degli umani, proprio perché la mancanza di umanità (identificata da una vita a breve termine) li spinge a ricercare la medesima. Una sorte di ricerca del Graal a cui gli stessi uomini hanno rinunciato, rassegnati ad attraversare una piovosa e notturna megalopoli, pedoni guidati da segnali stradali video-sonori che dicono loro quando fermarsi e quando camminare, afferrati ad una tecnologia disumanizzata che non sanno più controllare, o ad inutili apparecchi come ombrelli dal manico fosforescente.
Il protagonista Deckard sembra anch’egli un rassegnato, investigatore senza vocazione, piuttosto maldestro, lontano dall’eroe tipico (Harrison) Fordiano tutto azione e vittorie. Dei quattro replicanti a cui dà la caccia, uccide piuttosto poco cavallerescamente le due donne disarmate, si fa quasi uccidere dal terzo, e viene salvato da una mortale caduta dal quarto. Si riscatta portando in salvo la sua ragazza (Sean Young), anch’ella replicante .Ma del resto Deckard è solo un mezzo per portare lo spettatore attraverso la vera protagonista del film: la metropoli, nera ed enorme, mostruosa e bellissima allo stesso tempo. Città del futuro? No, la città dell’oggi. Quello che Scott raffigura è l’anima più dark di quegli anni ottanta del secolo scorso che erano appena iniziati. Nella pellicola troviamo molti elementi che hanno caratterizzato in maniera particolare quegli anni: le potenti multinazionali arroccate sui grattacieli, una rivoluzione tecnologica industriale (quella robotica-genetica nel film, quella informatica nella realtà), l’ossessione per il corpo, la malattia, la paura della vecchiaia, la sovraesposizione televisiva e pubblicitaria.
Insomma, un contraltare scuro e negativo dell’euforia Yuppistica di quel decennio, e allo stesso tempo una pietra tombale del lontano ricordo delle speranze legate agli anni sessanta. Blade Runner è diventato, quindi, uno dei più classici esempi di una fantascienza che descrive un angosciante futuro che trova il suo preludio nel mondo di oggi. E quasi nessun altro film è riuscito come questo ad introiettare nella cultura collettiva l’immagine di un domani così pessimista, di un’umanità così degradata senza scivolare nello scontato o nel ridicolo. È questa immagine è tanto più potente se si considera che quella grigia massa umana che si muove sotto la pioggia all’unisono coordinata da un segnale stradale, non è schiava di un dittatore o di un totalitarismo. Non c’è un Grande Fratello a guidarli, e non c’è nessuna matrice creata dalle macchine. Certo, ci sono le grandi corporazioni economiche a spadroneggiare, e si accenna ad un accentuato potere della polizia. Ma sono arrivati a quella condizione da soli, spontaneamente e passivamente. Una schiavitù autodeterminata….
Ci si perderebbero pagine e pagine ad enucleare tutti i significati, i simboli, voluti o no, manifesti o celati, di questo film: dalla paura della morte, al rapporto con l’artificiale, dal confronto Uomo-Dio, a quello tra verità e finzione. E si perderebbero pagine e pagine per descrivere la bellezza delle scenografie, del design ispirato da Moebius e altri disegnatori della rivista Metal Hurlant, degli effetti speciali di Donald Trumbull,o ancora della suggestiva colonna sonora di Vangelis. Ma per riassumere in una sola scena del film basterebbe il monologo finale di Roy Batty/Rutger Hauer, abbozzato in sceneggiatura, ma poi improvvisato e ricostruito dallo stesso attore in modo di renderlo immortale. Ed allo stesso tempo è una sintesi degli elementi principali del film: dal tema del “vedere”, già sottolineato dall'occhio iniziale che vede la città, o quello inquadrato dal test Voight-Kampff, o dal “fabbricante degli occhi”, a quello della morte, dai ricordi , fino alla pioggia che cade incessante sulla città e i protagonisti. "Io ne ho viste cose che voi umani non potreste immaginarvi. Navi da combattimento in fiamme al largo dei bastioni di Orione. E ho visto i raggi B balenare nel buio vicino alle porte di Tannhäuser. E tutti quei momenti andranno perduti nel tempo come lacrime nella pioggia. È tempo di morire".