martedì 18 settembre 2012

LA BELLA ADDORMENTATA di M.Bellocchio

In anni di sovraccarichi mediatici ed informativi, ci siamo già dimenticati come il caso Englaro avesse diviso il nostro Paese solo pochi anni fa. Lo scontro (etico, politico, giurisdizionale , medico, ma anche personale ed umano), che lo percorse, è al centro del film di Bellocchio. Il regista sceglie di tenere di Eluana come contesto in cui si muovono personaggi di finzione. La posizione laica di Belloccio è palese, ma si pone sempre a un livello di rispetto di ogni coscienza, senza tentare di conciliare diverse posizioni, ma senza nemmeno condannarle. Il punto fermo è comunque che il rancore, qualsiasi sia la sua origine, spinge a non riconoscere quale sia il vero valore della vita e del morte, il senso dell’accudire un’altra persona, senza che questo si trasformi a sua volta in una violenza od in una dipendenza. Dall’attrice che rifiuta la recitazione nel tentativo di diventare una santa per salvare la figlia in coma, passando per il padre ripudiato alla figlia perché ritenuto colpevole della morte della madre malata, a tutte le altre storie narrate, c’è un unico filo conduttore: un “risveglio” metaforico (come piace ripetere a Bellocchio in conferenza stampa) che ad Eluana era precluso, ma che i vivi che hanno scelto la “morte sociale” (la drogata della Sansa, il politico disilluso di Servillo, ecc…) dovrebbero ritrovare. Ed in un’era di “disumanità patologica della politica” (espressione del regista stesso), per la quale, nella realtà filmica, i Politici vanno a consulto dal senatore – psichiatra Herlitzka che distribuisce psicofarmaci, è l’Italia intera che negli ultimi anni si trova in uno stato continuo di dormiveglia. Il caso Englaro non si può separare da chi governava in quel periodo e di come ha agito (“mi dicono che Eluana può avere le mestruazioni…”), e quindi il Berlusconismo viene rappresentato, seppur in pochi momenti, in tutte le sue storture; forse meglio qui che in tanti film di Moretti o della Guzzanti. Molto più cauto invece nei confronti della religione, di cui ne viene condannata sola la forma estrema, legata al rancore contro se stessi o contro gli altri, e quindi negazione essa stessa della vita vissuta. Il personaggio di Isabelle Huppert ne rappresenta appunto la forma intollerante, che nella patologica assistenza della figlia malata, compie del male a se stessa ed ai suoi congiunti. Ora nelle sale, il film è stato ingiustamente snobbato dalla giuria.

martedì 11 settembre 2012

PIETA di Kim Ki-Duk (vincitore del Leone d’Oro)

Non ci si faccia ingannare dal titolo, di pietà ce ne è poca in questo film coreano, se non alla fine, ma se non come prodotto di una vendetta terribile e subdola. Al centro la storia di un giovane violento che riscuote i debiti per conto di strozzini, mutilando ferocemente le sue vittime. Ad un certo punto trova una donna che si presenta come la madre che lo aveva abbandonato e mai più rivisto, riportandolo al centro di un nuovo giro di violenze ma allo stesso tempo facendogli riscoprire l’affetto materno. In realtà quello che è scattato è un meccanismo dagli ingranaggi raffinati, che porterà il noir verso il finale melodrammatico. Vincitore annunciato già a metà mostra del Leone d’Oro, non un capolavoro, ma forse il più agile ed astuto dei film in gara, quasi tutti di qualità medio-alta, senza mai cadute in basso o vette particolari. Una rispettosa rassegna cinematografica quindi, non divertente ma sicuramente coerente. Raramente in questi giorni si è stati spinti da uscire dalla sala (anche se è successo), così come raramente si è buttato lo sguardo al red carpet per vedere i divi. E alla fine ha vinto il film che sembrava fatto apposta per vincere: orientale (ancora!), regista già con il tagliando, violenza e sentimenti, trasgressione e sguardo sul Paese i cui è ambientato. Ma anche capacità di parlare al mondo. Cosa che forse non permette ai film italiani (anche quello bellissimo di Belloccio) di vincere, visto che sono talmente concentrati a descrivere la nostra realtà, i nostri problemi sociali e politici, che forse risultano più difficili per un pubblico internazionale. Eppure il neo realismo parlava della realtà italiana ed aveva successo. E lo stesso era successo con Gomorra e Il Divo. Forse questi avevano un linguaggio internazionale che anche quest’anno è mancato? Oppure siamo noi che temiamo di farci vedere provinciali facendo vincere un nostro film, come suggerisce un mio collega de L’Avocetta? Spazio al dibattito, comunque pare che in giuria Garrone volesse difendere gli italiani, ma il presidente Micheal Mann si sia fermamente opposto…

mercoledì 5 settembre 2012

OUTRAGE – BEYOND di Takeshi Kitano

Pistole, Yakuza, donne con draghi tatuati sulla schiena, schizzi di sangue, vendette, poliziotti corrotti, orrore e crimine. E poi trapani e palline da baseball usati come armi. In una parola: Kitano. Il regista ha realizzato con la mafia nipponica quello che Coppola fece negli anni settanta con la mafia italo-americana: tracciare un epopea shakespeariana della criminalità, con un protagonista antieroe che nella sua grandezza tragica attira le simpatie di un pubblico onesto affascinato dall’illecito.

domenica 2 settembre 2012

THE MASTER di P.T.Anderson

Joaquin Phoenix è uno sbandato tornato dalla Seconda Guerra Mondiale, che nel suo girovagare si imbatte in una setta di matrice familiare convinta nella reincarnazione. Verrà preso sotto affidamento dal leader e maestro, che tenterà di curare la sua psicosi. Bravo Phoenix, ben lontano dal Commodo de Il Gladiatore, ma che in fin dei conti interpreta quasi se stesso. Immenso Philip Seymour Hoffman, nella parte del Maestro, di cui esterna tutte le sottigliezze carismatiche e perverse. Rappresentazione non accreditata di Scientology, il film non sembra proprio una condanna tout court delle sette pseudo – religiose, evitando semplificazioni e rappresentazioni troppo violente, ma l’immagine grottesca che ne esce non lascia ad esse molte speranze. Finale troppo veloce dopo due ore di film.

TO THE WONDER di T. Malick

Raramente ho visto un film in cui per due ore consecutive, ogni fotogramma fosse un piccolo quadro, una felice immagine ed intuizione cinematografica allo stesso tempo. Al film di Malick non servirebbero le parole, basterebbe la semplice visione per seguire la trama; una trama tutta incentrata sulla difficile relazione di una coppia (lui Ben Affleck , lei una bellissima Olga Kurylenko), e su un parroco (Javier Bardem) senza fede come contorno. Il tentativo è quello di mettere in relazione l’amore di Dio (attraverso il creato) e quello degli innamorati. A rovinare il tutto il tutto sono proprio le parole, passate quasi tutte attraverso voice off del pensiero dei protagonisti: parole leziose, che abbinate alla raffinata estetica delle immagini, fa sembrare il tutto la reclame dell’ultimo profumo di uno stilista parigino. Alla fine scattano impetuosi i fischi. Ma se Malick si fosse manifestato in sala, avreste fischiato, critici codardi?