sabato 2 maggio 2009

C'ERA UN VOLTA SERGIO LEONE





Chissà cosa avrebbe ancora prodotto Sergio Leone, se la morte vent’anni fa non gli avesse impedito la realizzazione del suo progetto sulla battaglia di Stalingrado. Ci restano pochi, ma grandiosi ed eterni film. C’è una differenza sostanziale tra il western classico americano e il western di Sergio Leone (e scusatemi se volutamente non parlo di spaghetti western). I film western americani con protagonista John Wayne (ma potrebbero essere stati Gregory Peck, James Stewart, Burt Lancaster, Gary Cooper…) rappresentano un west probabilmente mai esistito, e quindi, in un certo senso, mitico, dove l’eroe è un personaggio positivo, anche se magari un po’ brusco nei metodi, ma sempre all’interno di un ragionevole limite. E, soprattutto, è portatore di valori positivi. Nei western di Leone questo eroe positivo non c’è più. Non c’è nessun valore positivo portato avanti dal protagonista. Anzi, i personaggi rappresentano il genere più basso che l’umanità possa conoscere: dei veri e propri figli di puttana. Ma a nobilitare il tutto, a renderlo grandioso ed epico, interviene il regista. Primi piani su particolari anatomici (gli occhi), inquadrature dilatate con punti di osservazione impossibili, e fermi immagine tenuti per tempi insostenibili: l’immagine viene estesa nel tempo e nello spazio fino a raggiungere una sua epicità. Stephen King, parlando della sua saga epica mista a cow boy, La torre nera, cita proprio Sergio Leone come fonte d’ispirazione: le canne delle pistole nei suoi film diventano lunghissime come le spade degli eroi mitologici. E se teniamo conto che il primo film in assoluto di Leone è stato il Colosso di Rodi, esempio nobile di peplum italiano, si capisce subito che il mito, l’epos faceva parte del linguaggio del regista. E si può tranquillamente sorvolare sulle polemiche del plagio (effettivo) ai danni di Kurosawa nel plot che ha dato alla luce a Per un pugno di dollari, se si va a guardare la fantastica parabola della filmografia di Leone, che lo porta pian pianino ad allontanarsi dalla sfera del mito del west per addentrarsi nella storia. Accennata in Il buono, il brutto e il cattivo, sfiorata in C’era una volta il west, letteralmente esplosiva in Giù la testa e rappresentazione di una nazione in C’era una volta in America, la storia dei popoli, delle nazioni, fa da sfondo a personaggi tragici, perché loro, ancora enormi come il Clint Eastwood della trilogia del dollaro, devono confrontarsi con una realtà più meschina, crudele di loro, piccola nonostante gli enormi ingranaggi della storia umana. Bigger than the life, come nelle migliori tradizioni, insomma. Ma non solo questo. Con un parabola inversa, la rivoluzione messicana di Giù la testa e la saga gangsteristica di C’era una volta in America sul grande schermo sono pronte a proiettarsi dalla storia, dalla loro dimensione temporale, nuovamente verso il mito, rientrando nella memoria collettiva. Perché, e forse Leone lo aveva capito, quando la storia si mescola con il cinema diventa la prima fonte di costruzione del mito