venerdì 11 gennaio 2008

L'ALLUNAGGIO IN CASA DEL TURNISTA SIGNOR T


Fotografia dellaTerra fatta dalla Luna (provenienza:NASA) pubblicata sul numero di gennanio 2007 de L'Avocetta nell'articolo L'Eclissi del 2006 di Piergiorgio Marchiori


Il campanello di casa del turnista signor T suonò gracchiante alle 20 e 30 circa. La cosa lo distolse dal morbido torpore in cui era sprofondato, complice la poltrona e la distratta lettura della Gazzetta. E gli fece ricordare principalmente due cose.
La prima era che quella sera l’Uomo avrebbe conquistato la Luna, dal momento che degli americani a bordo di un missile stavano per compiere il primo allunaggio della storia dell’Umanità.
La seconda era che a fargli visita, e tenere compagnia al signor T e a tutta la sua famiglia, sarebbe venuto il compagno di lavoro signor G, accompagnato dalla sua di famiglia.
Erano due eventi decisamente importanti per la quotidianità del signor T.
Oltretutto due eventi che avrebbero coinciso temporalmente, visto che il signor T. possedeva un televisore, e che quindi avrebbero assistito tutti insieme all’evento spaziale.
Bisogna ricordare inoltre che al Signor G era negata la fortuna di possedere un televisore; ma per lo meno aveva una Bianchina con cui spesso aveva portato in giro l’amico e collega Signor T.
Ora il padrone di casa aveva finalmente l’occasione di sdebitarsi.
Richiamata così all’ordine alla meno peggio il suo nucleo familiare, il signor T si apprestava ad accogliere in casa gli ospiti….
Aperta la porta si mise ad osservare il giovanotto che gli stava sulla soglia e che era posto in avanguardia della famiglia G. “Capellone” pensò tra sé e sé. Effettivamente la crine del ragazzo non lasciava spazio ad altre interpretazioni. Lunghi boccoli biondo-castani si aprivano sul capo e si appoggiavano poi quieti sulle spalle, pronti comunque a scattare allo squillare di una qualche tromba rivoluzionaria o di quella più probabile della carica della polizia. Ad essi si aggiungeva lo sguardo con due occhi socchiusi, sempre fermi ad osservare qualcosa di sospeso in mezzo all’aria che stava sempre aldilà delle spalle dell’interlocutore, probabilmente una nuova era di paceefratellanzachestavalìlìpergiunge…
…ma lo sguardo del ragazzo fu all’improvviso ricondotto, dalle orbite extra plutoniane, direttamente a terra, da un elemento di disturbo, che però, subito dopo aver superato l’attimo di smarrimento, lo riportò nella volta astrale quando rivelò chiaramente la sua natura.
Era successo, praticamente, che la testa della figlia del signor T era sorta dall’orizzonte della grande spalla del padre, uscendo dal suo cono d’ombra. La fine dell’eclissi facciale rivelò una superficie lunare propriamente detta, sia per quanto riguardava il colorito pallido argenteo, che per i rilievi geologici, in quanto l’acne adolescenziale aveva provveduto a riprodurre fedelmente crateri meteoritici che circondavano mari della tranquillità. Proprio in mezzo a questi rilievi, si aprivano due occhi stupendi e grandi, messi sotto gli archi neri di due belle sopraciglia….. e celesti, ma di un celeste tale, che nemmeno le fughe di gas al petrolchimico non sarebbero mai state in grado di eguagliare.
La ragazza gli sorrise mostrando la transiberiana di lucido metallo che le attraversava le fila di denti, messa lì a raddrizzare le idee a qualche incisivo, che, un po’ come i capelli del ragazzo, aveva forse una tendenza ribelle di troppo: ma fu solo un attimo, perché, ricordatesi della protesi odontoiatrica che le sfigurava la bellezza, la ragazza ebbe un sussulto: si portò una mano sulla bocca e piegò la testa in segno di vergogna.
Il ragazzo, sradicato dall’estasi dal gesto di chiusa timidezza di lei, si risvegliò scoprendosi puntato a vista dagli occhi incandescenti del signor T, che accortosi dello scambio di occhiate adolescenziali non attese di proferire un “ragazzo, tutto bene?”.
Anche il signor G. capì cosa stava succedendo, e rapido diede una piccola spinta al figlio per distoglierlo dal torpore.
I due capi famiglia, una volta liberatisi dell’impaccio dei due figli adolescenti (i quali si erano scambiati un timido e insicuro Ciao), lanciarono l’una contro l’altra le mani callose e dure, e stringendosi in un aggancio trasmisero tra di loro tutta la forza di una amicizia virile, sentita, operaia, duratura, veneziana. Ed insieme ad essa tutte le esperienze di quelle mani, tutti i chiodi impiantati, tutti i martelli impugnati, tutte le sbarre piegate, tutte le ustioni sofferte, tutti i porchi e tutte le preghiere insieme lanciate al Padre Eterno, tutto scritto nero su bianco da cicatrici e calli.
-Nane, come và?-
-mi tiro vanti. Te sa, coi turni no xe facile…e ti?-
-che te vol, se tira sempre vanti anche dae nostre parti-
Le mogli se ne stavano un po’ indietro e in disparte accennando il loro sorriso più dolce e materno, salutarono figli e mariti altrui e quando alla fine poterono dedicarsi a loro stesse, portarono le loro voci a frequenze studiate a dovere per abbracciarsi in un acuto tutto casalingo.
Ma che ben ma che ben che te vedo si ma go ancora i genoci che fa mal va ben passerà quando te ga fatto l’ultima visita e sta maglia? Fratta ti? Che brava che brava…come? Si si go perso do tre chili… ma se te savessi… no dormo a notte neanca co so stanca
Quando ormai i saluti sembravano portati al termine ecco che all’improvviso apparve Zorro. O, più prosaicamente, un piccolo Zorro biondo, il novenne secondogenito del signor T, reticente nel non accettare che il carnevale fosse finito da alcuni mesi.
Naturalmente non poté scappare dalla morsa femminile.
Ma che grande che sei diventato e che bello che sei Come cresse sti fioi no te fa ne’anca in tempo ad accorgetene
Si sedettero intorno alla tavola. Il signore G si posizionò di fronte allo schermo scuro della televisione, meravigliato e invidioso. Lui possedeva la macchina. L’aveva comprata usata con tanti sacrifici,e con quella si facevano le gite ad Eraclea, o in montagna dalle parti di Pedavena. Ma Il signor T aveva la televisione. Un oggetto sacro, un cubo nero e bombato che si stagliava al centro del piccolo soggiorno appoggiato alla parete, incastrato tra la credenza e la macchina da cucire Simac. Sopra di esso come in un luogo sacro erano poste le foto di nonno Alvise e zia Pinetta.
Il signor T si alzò per accenderlo facendo girare le manopole. Lo schermo cominciò a crepitare come una carbonella elettronica. Le immagini cominciarono a focalizzarsi in un bianco e nero stentato. Forme distorte piano piano presero la forma di giornalisti seduti intorno tavolo.
- Ma la Luna ma la Luna…dov’è la Luna?- gridava il piccolo Zorro
- Sta bon sennò te mando in letto-
- ecco ecco ‘desso ea fa vedar-
Immagini satellitari sbiadite di una landa desolata.
- Però sti americani, varda ti dove xe rivai-
- …si ma i russi xe più vanti. Già i pensa de andar su…come se ciama Marte? Giove?-
- Marte Marte- gridava il piccolo Zorro- quarto pianeta del sistema solare. Li ci sono canali e allora c’è l’acqua. Sulla luna invece no perché sennò vola via-
Ma che bravo ma che bravo sto fio sa proprio tutto ma dove te l’hanno spiegato a scuola? che bravo che bravo ma impara proprio tutto. Me fio invesse no se applica ga sempre a testa par aria. Te capisso anche me fia xe cossì. Ma i fioi de incuo se fati in sta maniera parchè non ga patio queo che gavemo patio noialtri a quea età.
La ragazza e il ragazzo finsero di non ascoltare grazie al loro dono di aver la testa sempre l’aria.
Non partecipavano molto alle discussioni intorno alla tavola. Non partecipavano a nulla proprio. O forse partecipavano solo a loro stessi. Si prolungarono in un silenzio che ad occhi poco esperti sarebbero sembrato eterno. Ma gli ormoni e i sentimenti a volte possono superare anche le cortine di ferro, e senza incrociare incautamente gli occhi i due cominciarono a scambiarsi qualche banale battuta ma questo ve lo assicuro, con promettenti prospettive alchemiche. E nascondendo le pupille dietro gli occhiali per quanto riguarda lui, e la protesi odontoiatrica dietro la mano tremante per quanto riguarda lei, i due poterono costruire una discussione tutta loro senza perdersi nelle disquisizioni lavorative dei padri o in quelle domestiche delle madri, o in quelle astronomiche del piccolo Zorro. E così lei vedeva già le poesie alle stelle, e lui sentiva già i racconti agli amici.
Incuranti dei congiunti innamorati, i signori G e T sprofondavano sempre di più nel loro argomento di discussione preferito: il lavoro.
- Si xe dura coi turni. Però me so abituà..e poi te savessi, quando go el turno de notte e stacco ae sette andando fora dal cantiere me vedo ogni volta sta marea de operai che va a lavorar. Migliaia e miglia de persone … in bici, che sende daea filovia… e anca quei che no ga un scheo ne’anca par a filovia, e aeora se fa a strada tutta a pie fin da casa. Te Vedessi quanta gente. Non te rendi conto se te tacchi a lavorar. Ma se ti si drio andar via mentre staltri riva…te domandi: ma da dove riva tutta sta gente? Eppur vien fora da Chirignago, Campalto, Favaro da Malcontenta e po’ ghe xe quei da Ciosa (che se fa un bel toco in filovia) e quei da Mira. Ma ghe ne xe ancora alcuni da Venessia che no ga ancora accettà de ciapar a casa dea ditta qua in terraferma come go fatto mi (maledetta quea volta). E te dirò de più: se te me domandi chi xe sta gente te so dirte non soltanto i nomi e i cognomi, ma anche azienda, cantiere, reparto e mansion de lavoro!
Il signor T non se ne era accorto ma mentre parlava non guardava più in faccia il caro amico signor G. No: guardava il muro bianco di fronte a lui. E sul quel muro bianco andava a proiettarsi l’immagine di quel formicaio umano che i suoi occhi avevano ripreso al termine di ogni turno di notte da ormai 15 anni. Barbe capelli visi magri visi tondi, margherotti e terroni immigrati. Tutti insieme.
Il signor G non era preso da quella scena proiettata sul muro. Ogni tanto buttava l’occhio semmai sul televisore. Scuoteva la testa a mò di assenso, mentre bevevo quel buon fragolino. Finchè non decise di tirar fuori quella frase.
- Ma te ga sentio de Piero S?…-
il signor T. interruppe di colpo la sua proiezione e guardò l’amico in faccia; prese il fragolino e si riempì il bicchiere nervosamente.
- si, si , brutta storia, brutta-.
- I dixe che xe perché a lavoro scopava sempre quea polvere;- il signor G si avvicinò a T in modo che mogli e figli non sentissero- scopa incuo scopa doman..-
Scopa oggi, scopa domani, al Signor Piero quella polvere entrò nei polmoni, e i colpi di tosse non bastarono per mandarla via.
- ma mi me domando…noialtri…-
T sbottò di fronte all’amico – noialtri, noialtri cossa vusto che chiudemo tutto quanto. Te vol star casa? Quante volte gavemo battuo a testa per aver più sicuressa. E tutte e volte a gavemo ottenua. Ma dopo? Dopo dove te rivi? E poi te sa na cosa? Meglio morir de veleni che morir de fame-
- Si si xe vero, ma te sa, ghe xe dee volte che quando me alzo da letto el me sudor…--
Il signor G si interruppe perché il suo sguardo aveva appena incrociato per caso quello della moglie, che in quel preciso istante aveva abbandonato il continuo e monotono suono di scambio di battute con l’amica (la quale era rimasta abbastanza imbarazzata da questa interruzione), per trasfigurarsi in una figura mistica matriarcale, la cui altezza superava di almeno un metro la statura media dei commensali (Piccolo Zorro escluso): il suo sguardo, la cui visione diretta non poteva essere sostenuta da essere mortale, stava fulminando il corpo del marito, reo di aver aperto una porta della stanza dei Tabù. Non doveva aprire quella porta. Forse non doveva aprirla in quel preciso momento nel salotto dei loro amici. Forse c’era un patto implicito di tenere quella porta sempre sigillata. Fatto sta che i due uomini si zittirono e non continuarono più quel discorso per tutta la serata. La signora G. ritornò alle sue spoglie terrene, e con un chiaro sorriso rivolse di nuovo gli occhi all’amica e riprese il discorso da dove lo avevano lasciato pochi istanti prima.
Nel frattempo il piccolo Zorro cominciò a cedere a quella particolare forma di stanchezza che (ma solo nei bambini) riesce ad arrivare esattamente dopo una fase di grossa eccitazione. Quando gli occhi cominciarono ad essere incredibilmente secchi, e le mani non riuscivano a strofinarli abbastanza da metterli apposto, cominciò ad abdicare all’idea che la compagnia della gente attorno a lui, sorella compresa, si rivelava al quanto monotona e noiosa, e che pure la trasmissione in televisione era alquanto tediosa, per cui tanto valeva la pena abbandonare la situazione, e immaginarsi una realtà migliore, dal momento che Morfeo era per giunta arrivato giusto in tempo per dare una mano. Ecco allora che si vide avvicinarsi al gran complesso industriale di Porto Marghera, insieme ad una miriade di persone che come lui (chi in bici, chi a piedi , chi in filovia) si apprestava a prendere i missili lì pronti a partire per lo spazio. Si perché le grandi ciminiere, altro non erano (come lui aveva sempre sostenuto ma tutti avevano sempre negato) che astronavi, e i loro scarichi, (magari si, velenosi, ma chi se ne frega!) i residui della combustione del carburante utilizzato dai motori. Perché in fondo anche le auto fanno fumo! Preso il primo missile pronto alla partenza (e salutati sarcasticamente con la manina la sorella e il suo nuovo amico che come beoni si erano attardati per strada per chissà quale motivo) incominciò il suo viaggio siderale. La luna fu sorpassata rapidamente: la vera destinazione era Marte! Giunto finalmente lì trovò gli americani che con grande solennità impiantavano la gloriosa bandiera a stelle strisce sul suolo marziano; ma erano tutti un po’ scornati: i russi erano arrivati prima!
Ma ormai questa era una polemica che sarebbe presto stata abbandonata: la flebile alternanza tra sogno e fantasia del piccolo novenne aveva ormai ceduto di fronte alla nebbia scura e calda del sonno, che coprì tutto l’orizzonte marziano e avvolse e cullò il bambino in un definitivo letargo.
Incurante della scena di fronte ad essa, la televisione proseguiva imperterrita nella sua trasmissione.
A seguirla c’era rimasto solo il signor G, indeciso tra guardare affascinato non tanto il programma quanto il suo contenitore, e il pensiero della tentazione corrosiva di licenziarsi e abbandonare per sempre il rischio di ammalarsi.
Alla fine decise un compromesso tra le due opzioni: la sua scelta sarebbe stata quella di continuare a lavorare al petrolchimico fintanto che non avrebbe avuto soldi a sufficienza per comprarsi un televisore.
Ad un’osservazione superficiale ad alcuni sarebbe sembrato che anche il signor T stesse seguendo la trasmissione, ma in realtà continuava a proiettare davanti a sé l’immagine della Classe operaia che marciava verso la gloria.
Ad un certo punto però la televisione volle riprendersi la sua rivincita. L’attenzione dei presenti fu infatti richiamata dall’annuncio di Tito Stagno che l’allunaggio era stato compiuto.
Gioia, risate, vari Finalmente gridati sospirati, vino versato, bicchieri incrociati, brindisi alla Luna, mani che si toccano sotto la tavola, pensieri abbandonati, battute oscene (zitto che il bambino sente), rigurgiti sopiti.
Ma il giornalista aveva semplicemente sbagliato una traduzione dall’inglese di una frase, e la Luna non era ancora stata raggiunta…



giovedì 10 gennaio 2008

PER LA TANGENZIALE

Questo è un racconto già comparso on line su www.lavocetta.it nel lontano 2004. L'ho voluto recuperare come primo racconto da pubblicare sul blog perchè in fondo è quello a cui più ci sono affezionato. Quando lo scrissi avevo la pretesa di dare la mia rappresentazione della terra Veneta in cui vivo (in particolare della periferia mestrina) insieme a qualche speculazione esistenziale...ah, naturalmente riferimenti a fatti o persone reali sono da considerarsi puramente casuali!!!!!




Il Tega (al secolo Lorenzo Tig***) passava parecchi minuti ad osservare come la tangenziale di Mestre riusciva a coprire perfettamente la linea dell’orizzonte, se si davano le spalle al sole che tramontava. E come quella sporca striscia d’asfalto, nell’ora di punta, intasata e strangolata dalle macchine che tossivano e sputavano smog nero e arrabbiato, riuscivano ad essere il raccordo tra la terra, fatta di campi, fabbrichette e condomini, e il cielo, libero e immenso, solo saltuariamente inquinato da aerei diretti a Tessera.
Ma quello che teneva veramente occupato il Tega non era tanto quel paesaggio, per di più piuttosto banale, ma l’idea, lacerante e ruffiana, che un motorino, adeguatamente elaborato, avrebbe potuto sfrecciare in mezzo a quell’ingorgo di lamiere, come nemmeno una moto sarebbe stata capace di fare.
Proprio perché ai motorini era proibito entrare in tangenziale, e proprio perché, una volta entrati, non c’erano più leggi da rincorrere, la “Giamaicana” del Tega poteva spingersi laddove patentini e fogli d’immatricolazione non consentivano.
E il Tega era sicuro di farcela con il piano che si era fatto, così semplice da far paura: doveva raggiungere la tangenziale dall’entrata della Castellana, proprio nell’ora di punta, e poi sfrecciare nella corsia di emergenza, superare le macchine incagliate a destra, e scappare via per l’uscita della Miranese, e poi dritto a casa, oppure in piazza a glorificarsi con la compagnia…

Se c’era ancora la compagnia; perché ultimamente la banda del Tega si era un po’ dispersa, nonostante la sua storia, nonostante la sua gloria.
Si era formata nei fantastici anni delle odiate scuole medie, quando il Tega, pluri-ripetente, a 15 anni si ritrovò a capo di un gruppo di dodicenni, i quali, anche se condividevano lo stesso anno scolastico, lo vedevano come il fratello maggiore, il compagno più adulto, quello con più esperienza di vita. Il leader, insomma. Ma, soprattutto, lui era quello che poteva regolarmente circolare in motorino, grazie alla sua età. Per cui non pochi tra quei giovani imberbi, che ritrovavano di fronte ad una nuova religione dopo quella impostagli dai genitori, andavano in giro a dire: ”Anch’io un giorno come il Tega, …”
Qualche anno più tardi, quando tutti compirono i loro primi 14 anni, le strade del Zelarinese si videro invase da adolescenti centauri, in sella a ciclomotori di ferro e plastica, regolarmente elaborati per essere più veloci, rumorosi e inquinanti. E le mete dei loro viaggi erano regolarmente la piazza della chiesa per incontrarsi con le ragazze, i campi più nascosti agli occhi umani per bevute e fumate clandestine, ed in fondo allo scantinato di qualche amico per dissotterrare vecchi giornali porno e darsi all’arte onanistica.
Ma quei tempi cominciarono a venire meno quando gli amici del Tega, raggiunta la maggiore età, si convertirono alle borghesissime auto e moto giapponesi, che, sì, forse erano più veloci e aerodinamiche dei vecchi Garelli elaborati,… ma volete mettere quelle colorate lucide e superficiali carrozzerie di plastica, con il vissuto di un telaio vecchio di vent’anni sporco d’olio?
Volete mettere la fredda perfezione di un motore progettato da qualche ingegnere nipponico, con la forma plasmata e plasmabile, in continua evoluzione e trasformazione di un motore elaborato, figlio ibrido di una orgiastica unione tra pistoni di diversa etnia?
Eppure il Tega si ritrovò solo nella sua fede,e lui, moderno integralista religioso, continuò a sporcarsi le mani infilate tra proibiti meccanismi e ingranaggi.
E a nulla servirono le sollecitazioni dei suoi amici…
“ Dai Tega, cresci anche tu, che te ne fai di questi catenacci.. fatti la patente, e il cellulare che adesso ce l’hanno tutti… e poi cosa credi, senza macchina come pensi di trovartela una donna?… non vorrai ancora andare dietro alla Cinzia… lo sai che lei ce l’ha tempestata di diamanti, no?”
No, in fondo la Cinzia non era così preziosa, anzi per piacerle bastava essere di buona famiglia, ben educati e sempre con buone intenzioni. Le buone intenzioni non mancavano certo al Tega, ma era negli altri due requisiti che era più carente. Eppure, il Tega e la Cinzia, da bambini facevano dei giochi poi scoperti proibiti, nella cameretta di lei. Ed alle medie erano stati pure insieme, e quei gran baci dati dietro i materassi della palestra scolastica non se li scorderanno di certo né lui né lei né gli insegnanti che sistematicamente li scoprivano.
Ma il sesso vero quello no…
Per quello il Tega, come molti ragazzi prima e dopo di lui, si era rivolto alla Vianna, che aveva il merito di aver sverginato buona parte della periferia mestrina. Di cervello e amici ne aveva pochi, ma di seno e amanti il Buon Dio l’aveva ben rifornita. La chiamavano puttana, ma era molto a più buon mercato di tante altre. E così, pochi mesi dopo che la sua ragazza gli aveva dato il buon servito, il Tega andò a trovare la Vianna a casa sua nel giorno di riposo da lavoro. Non fu difficile convincerla. Il difficile era cercare di essere all’altezza della situazione. La ragazza, che aveva un’età indefinita tra i 15 e i 35 anni, ne sapeva tanto sul sesso quanto il Tega ne sapeva sui motori. Gli fu quindi naturale, per resistere e non lasciarsi travolgere subito dall’emozione, pensare alla Giamaicana. Per un attimo pensò anche alla Cinzia, ma gli parve una cosa poco carina da farsi.
Sapeva che lei era qualcosa di veramente prezioso, superiore a lui. E anche se, quando la Vianna lo sverginò, erano passati alcuni mesi da che si erano lasciati, gli sembrava ingiusto confonderla con quella prostituta.
In fondo la Cinzia era buona e gli voleva bene.
E il Tega era pure convinto che lei aveva avuto ragione a lasciarlo, anche se non si capiva bene il perché. “Io non sono una marmitta da elaborare” gli aveva detto. Lui non ci capì molto, ma detto da lei sembrava una frase tanto intelligente.
E poi lei lo trattava sempre come un fratello. Ed aveva pure convinto suo padre ad assumerlo nella fabbrichetta familiare, quando finalmente ebbe finito le medie e si sapeva che ogni strada scolastica gli era preclusa.
Nel capannone dietro la villetta, la premiata ditta Fas** aveva cominciato la sua fortunata attività producendo gondole in miniatura, per turisti giapponesi in frettolosa visita a Venezia. Con gli anni e con il successo si allargò con torri pendenti di Pisa e Colossei, e, ma solo ultimamente, anche Torri Eiffel e qualche statua famosa. Fu proprio in quella catena di montaggio di opere d’arte che iniziò tutto…

Un giorno il Tega inavvertitamente fece cadere un intero stock di Veneri di Milo con le braccia. Quelli che dovevano essere prodotti infrangibili si rivelarono molto più deboli del previsto, e si frantumarono in una miriade di pezzi.
Per tutta risposta il padrone dell’azienda cominciò a rincorrerlo con una spranga in mano.
All’inizio per tutto il capannone, poi per il giardino dietro casa, infine per strada, il Tega a bordo della sua Giamaicana e il padre di Cinzia con il suo Fiorino.
La corsa fu estenuante, ma il Tega ancora non sapeva quanto essa sarebbe stata fondamentale per la sua vita.
Una volta usciti dalla Castellana, in direzione della tangenziale, l’annoso problema del traffico di Mestre giocò a favore del nostro eroe: il signor Fas** si ritrovò bloccato tra fondamentalisti consumatori clienti dell’Auchan, impiegati prozac dipendenti in vana fuga dall’ufficio, pullman carichi di turisti giapponesi teleoperatori digitali, dipendenti comunali dediti alla riasfaltatura dell’asfalto stradale e cingalesi spacciatori di rose. Ma il Tega no, lui poté avanzare agilmente col suo scudiero verso la salvezza, perché due ruote in meno fecero la differenza.
Sembrava una storia destinata ad avere un lieto fine, finché la paletta rossa non si alzò di fronte a lui.
- Dove el pensa de andar- disse il vigile con un chiaro accento siciliano –
- C..come?- balbettò il Tega-
- Non sa che non se pol andar par la tangensial in motorin?-
- N-no…-
- Ben ciò,… ma scusi par caso xe elaborà stò motorin?-
- Bè…l’ho un po’ ripitturato…-
- Ripiturà? A mi me par ristrutturà, minch…casso!!-
La multa fu salata come un indennizzo di guerra, ma ciò che più scottò al nostro eroe fu il fatto di essere stato bloccato quando nessuna legge fisica non lo avrebbe mai potuto fermare, per un divieto che non valeva per le ingombranti borghesi automobili, che regolarmente si ritrovavano imbottigliate nella tangenziale, ma che valeva per la giamaicana.
Per la prima volta da che ricordava sentì un fortissimo sentimento di insoddisfazione per un’imposizione non accettata, e contemporaneamente un’attrazione innaturale per quella strada che gli era stata proibita, il tutto miscelato ad un desiderio fortissimo: quello di attraversare la tangenziale con la Giamaicana.
E fu così che nacque la sua fissazione. La fissazione per la quale i suoi amici lo denigravano e lo spronavano a rinunciare. La fissazione per la quale ogni singolo giorno la Cinzia lo rincorreva per la fabbrica con una rabbia che manco suo padre aveva, e con una preoccupazione che il Tega mai le aveva visto addosso e che non capiva, come anche il di lei ragazzo, poco felice di quelle attenzioni.
Però nessuno riuscì a distogliere il Tega dalla sua missione perché la sua determinazione non aveva pari.
Ma perché il suo progetto andasse in porto e per essere sicuro di non essere fermato da altre palette rosse, doveva perfezionare il suo mezzo.
La Giamaicana doveva scomporsi e reincarnarsi in qualcosa di diverso, simile nell’aspetto esteriore ma profondamente modificata nella sua struttura interna, per essere più agile e veloce, più di quanto lo fosse già.
Il Tega cominciò, così, ad aggirarsi, nelle buie sere d’inverno, per spettrali cimiteri d’auto, coperto da un impermeabile nero. Tra chiazze di pozzanghere di olio nero, di cui si nutriva il terreno, e cadaveri d’auto sventrate, si accanì nel frugare tra funeree carrozzerie e trapassati telai, ed espiantare pezzi di motori che furono, organi ancora buoni per praticare innaturali innesti.
Con il frutto del suo empio bottino il Tega passò notti intere, dentro il suo garage chiuso a chiave, a lavorare sul suo mezzo, svitando, sbullonando, stringendo, saldando, staccando, allargando, oliando, raschiando e incastrando ogni singolo frammento di quello che alla fine avrebbe costituito la sua opera finale. E alla fine di tutto, esausto, piegato sulle ginocchia, con la chiave inglese che gli scivolava dalla mano per franare sul pavimento, guardò la sua creatura come per chiedergli “…e ora dimmi qualcosa” , ed essa, con il riflesso di un raggio di luna sul fanale anteriore, ironica e beffarda, sembrò rispondergli: “Accendimi”.

Il giorno era arrivato.
Aspettò che il sole calasse, per avere l’oscurità come alleata.
Aspettò l’ora di massima punta, in cui tutte le macchine confluivano insieme strozzando il flusso, per avere maggiori chance contro le forze dell’ordine.
E poi mise in atto il suo piano.
Percorse la Castellana, poi superò senza fatica il ripido cavalcavia dell’Auchan, spiato dall’uccellone rosso dell’insegna. Quindi inforcò le due rotonde prima della Tangenziale; diede un’occhiata in giro non vide nessun vigile, né poliziotto, né carabiniere che potesse fermarlo. Si buttò allora dentro la rampa che lo avrebbe portato nel luogo del delitto. C’era una coda ma lui la superò agilmente e finalmente si trovò dentro a quella lingua d’asfalto a due corsie più corsia d’emergenza (a volte) che agganciava l’Italia all’Europa, l’est all’ovest e attraverso la quale tutti i terrestri dovevano passare almeno una volta nella vita.
Subito il Tega si trovò a rischiare la vita perché un autotreno proveniente da chissà quale ex paese comunista lo voleva schiacciare contro il camper di un crucco che aveva sbagliato la strada per Jesolo. Ma il ragazzo con una rapida mossa acceleratore-frizione-marcia-acceleratore riuscì a togliersi dall’impiccio e salutò il bestione con un dito alzato.
Il rabbioso clacson del tir ruggì la parola vendetta, ma il traffico strozzato gli impedì di realizzarla.
Una pantera dei caramba puntò lo sguardo sulla piccola zebra che attraversava impunitamente la savana ed emise il richiamo della sirena per indurla a fermarsi, ma vedendola scivolare veloce tra le bestie addormentate, la identificò come una preda troppo difficile da catturare, e la lascio andare tornando anche lei a sonnecchiare.
L’unico a non sonnecchiare era proprio il Tega. Anzi, mai in vita sua si sentì così eccitato, tant’è che mentre correva le macchine attorno a lui cominciarono per incanto a scomparire, per lasciare spazio al fondo stradale. Una enorme strada tutta per lui: cosa poteva desiderare di più dalla vita. E mentre si gongolava, senza accorgersene superò l’uscita di via Miranese…e come poteva accorgersi considerando quello che c’era intorno a lui!…
Le luci dei lampioni si succedevano in file che cercavano di resistere, piegandosi o curvandosi, al richiamo dell’infinito inutilmente e, come risucchiati dalla prospettiva, alla fine cedevano anche loro, come il Tega, come la Giamaicana.
Mestre passava sotto di lui, invisibile come sempre.
Venezia era solo un fantasma lontano alla sua sinistra sopra il manto grigio della laguna.
Porto Marghera era un castello delle fiabe e le luci delle sue torri, e i fuochi e i fumi che uscivano da esse, erano come fate e folletti che danzavano nella notte.
Il Forte AGIP, ultimo bastione dell’entroterra mestrino, si ergeva tutto ad un tratto sulla tangenziale a difesa dell’ultima uscita, quella di Marghera. L’ultima occasione per uscire …e poi c’era l’autostrada. Ma il Tega non colse questa occasione e continuò dritto per la sua strada. Il casello si avvicinava di fronte a lui. Ma quello ormai non era più un problema per chi era riuscito a sfrecciare nella tangenziale bloccata con il suo motorino: bastava mettersi sulla fila della Volkswagen di un crucco col telepass e poi sfrecciare via pregando iddio che qualche caramba non fosse là in zona pronto a sorprenderti.
Non più difficile che farsi il chopper o montare una marmitta lavorata a dovere.
“In fondo la libertà è una questione di elaborazione”.
Il pensiero gli attraversò la mente, nato chissà dove. Gli sarebbe piaciuto fermarsi per dirlo anche a Cinzia, ma le luci dell’autostrada, lì davanti, venivano sempre più risucchiate dall’infinito.
E il Tega non poteva far altro che seguirle.



Nel Zelarinese andarono avanti tre mesi a chiedersi dove fosse andato a finire il Tega.
Poi tutti si rassegnarono a ridurre anche lui ad una leggenda metropolitana. I soliti maligni dicevano che fosse stato messo dentro una clinica per tossicodipendenti. Per altri ancora, invece, l’overdose lo aveva colto prima che potesse entrarci. Chi non voleva credere a queste cattive voci assicurava che, moderno corsaro, continuava a girare per le autostrade di mezzo mondo rincorso da polizie di tutte le nazioni. Ma queste erano dicerie di chi in fondo non lo aveva mai conosciuto. I suoi amici preferivano non parlarne oppure, se interrogati, si limitavano ad un’alzata di spalle. Gli anni erano passati per tutti loro: si erano sposati, con figli station wagon e posti fissi, e il Tega proprio non poteva trovare posto tra tutte quelle incombenze.
Anche Cinzia si era sposata; aveva trovato un bravo ragazzo di buona famiglia. L’ha portata ad abitare in un bel appartamento nella centralissima piazza Ferretto: ogni tanto di notte nella sua stanza da letto chiude le labbra tra i denti. Ma poi scaccia subito i suoi pensieri fuori dalla finestra.
Anche la Vianna ha avuto un figlio: dice a tutti che è figlio del Tega. Ma il bambino, che ormai ha dieci anni, è abbastanza sveglio da capire che il suo è un cognome di comodo e che suo padre potrebbe essere uno dei tanti uomini senza nome che entrano ed escono dalla stanza della madre, i quali, però, non avevano avuto il buon gusto di sparire… Però essere figlio di una leggenda metropolitana può avere i suoi vantaggi. Soprattutto quando tua madre è una puttana, diventa una buona arma per uscire vivo dalle medie, e per diventare qualcuno di cui parlare, e ritrovarsi circondato da ragazzini, incuriositi dalle avventure di un fantomatico padre, che dicono “anch’io un giorno come il Tega….”
Foto scattata a Recanati....che sia arrivato fin la' il Tega? non lo so. Io si però. Ma questa è un'altra storia......