mercoledì 25 giugno 2008

H.J.F: POLICE E MORISETTE A MESTRE!

In un parco sorto lì dove una volta c’era una discarica, a metà strada tra la città di Mestre, le ciminiere di Porto Marghera, i campanili di Venezia e la laguna, si è svolto la seconda edizione del Jamming Festival versione mestrina. Lì giovani di tre generazioni differenti si sono ritrovati per celebrare la più bella delle messe laiche della storia dell’umanità: quella del concerto rock. E in quella bolgia umana mi sono ritrovato tra ragazzi ridotti ad usare le loro magliette come bandane per difendersi come moderni pirati dall’oppressione di un caldo sole di giugno, e ragazze in bikini costrette dal caldo a mostrare le loro grazie, rese belle dallo stesso sole come probabilmente non lo saranno mai per il resto della vita.



E lì dopo una paio di concerti di gruppi troppo preoccupati a farsi vedere fighetti, ho ritrovato una vecchia: amica : Alanis Morisette è salita sul palco tra le urla di benvenuto e ha cominciato a cantare. E ha cantato come se non fosse passato un solo secondo da quel Jagged Little Pill che la consacrò al successo più di dieci anni fa. E così un’intera generazione che con le sue note ha imparato ad essere alternativa di sinistra ha rivissuto le emozioni che sapevano dare canzoni come Ironic e Thank you. La sua voce, alta, appassionata, sottile, riempie tutto lo spazio del parco.



Purtroppo una brutta partita incombeva: le luci del palcoscenico si sono spente per dare spazio a Italia Spagna, quarti di finale degli Europei 2008. Due ore per vedere la nazionale perdere ai rigori. Ma quando le luci si riaccendono su un Copeland, che sembra un Efesto nella sua fucina, o un mago merlino con le percussioni al posto di provette e alambicchi, si apre un nuovo mondo. A lui tocca, con un suono dell’immenso gong che ha alle spalle, il compito di aprire il concerto: e così con Message in a bottle il pubblico esplode e salta all’unisono. La chitarra Summer sembra il genio ritirato in campagna a cui un giorno hanno bussato alla porta e gli hanno detto “Abbiamo bisogno di te. Ritorna”. E allora riprende il suo strumento appeso al muro, anche se sa che le telecamere impietose dell’organizzazione proietteranno sui maxi schermi le vene varicose delle sue mani. Sting sembra un Dioniso invecchiato e saggio. Il legno del suo basso è tutto scrostato, quasi a pezzi. Forse è quello di trent’anni fa. O forse no. Ma sembra già leggenda da solo.
Loro sono i Police. Trent’anni dopo.
Non è così naturalmente tutto divino. Sappiamo tutti che sono tre vecchietti riuniti sicuramente più dalla prospettiva dell’introito che dal motivo artistico. Sting ogni tanto non ce la fa a prendere l’ultima nota e allora con un sorriso si scusa con il suo pubblico. E va bene così perché il tutto è molto cordiale, comprese le frasi nell’italiano stentato del cantante e bassista. Che dichiara tutto il suo dispiacere per la sconfitta a calcio. “Come vi sentite?” chiede premuroso e ironico.
I pezzi si succedono, funzionando oggi come funzionavano ieri: Walking on the moon, Don’t stand so close to me, Do do do de da da da. Ad un certo punto vanno via. La gente chiede il Bis. Tornano con l’urlo di Roxanne, più in altro paio di canzoni. Se ne vanno di nuovo, e a questo punto comincia ad andare via anche la gente, convinta che sia tutto finito. E invece il palco si reillumina sulle note di Every breath you take. E la luna citata dalla canzone sta in cielo a guardare il pubblico festante all’interno di una giostra organizzata da una multinazionale su uno spazio verde costruito su una discarica, tra mille polemiche politiche e ambientaliste. Ma contava tutto questo in quel momento? Il senso in fondo lo riassume Sting in una frase in semi-italiano durante il concerto: Prima di diventare un cantante ero un professore..non ho ben capito che cazzo sia successo!…

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