giovedì 10 gennaio 2008

PER LA TANGENZIALE

Questo è un racconto già comparso on line su www.lavocetta.it nel lontano 2004. L'ho voluto recuperare come primo racconto da pubblicare sul blog perchè in fondo è quello a cui più ci sono affezionato. Quando lo scrissi avevo la pretesa di dare la mia rappresentazione della terra Veneta in cui vivo (in particolare della periferia mestrina) insieme a qualche speculazione esistenziale...ah, naturalmente riferimenti a fatti o persone reali sono da considerarsi puramente casuali!!!!!




Il Tega (al secolo Lorenzo Tig***) passava parecchi minuti ad osservare come la tangenziale di Mestre riusciva a coprire perfettamente la linea dell’orizzonte, se si davano le spalle al sole che tramontava. E come quella sporca striscia d’asfalto, nell’ora di punta, intasata e strangolata dalle macchine che tossivano e sputavano smog nero e arrabbiato, riuscivano ad essere il raccordo tra la terra, fatta di campi, fabbrichette e condomini, e il cielo, libero e immenso, solo saltuariamente inquinato da aerei diretti a Tessera.
Ma quello che teneva veramente occupato il Tega non era tanto quel paesaggio, per di più piuttosto banale, ma l’idea, lacerante e ruffiana, che un motorino, adeguatamente elaborato, avrebbe potuto sfrecciare in mezzo a quell’ingorgo di lamiere, come nemmeno una moto sarebbe stata capace di fare.
Proprio perché ai motorini era proibito entrare in tangenziale, e proprio perché, una volta entrati, non c’erano più leggi da rincorrere, la “Giamaicana” del Tega poteva spingersi laddove patentini e fogli d’immatricolazione non consentivano.
E il Tega era sicuro di farcela con il piano che si era fatto, così semplice da far paura: doveva raggiungere la tangenziale dall’entrata della Castellana, proprio nell’ora di punta, e poi sfrecciare nella corsia di emergenza, superare le macchine incagliate a destra, e scappare via per l’uscita della Miranese, e poi dritto a casa, oppure in piazza a glorificarsi con la compagnia…

Se c’era ancora la compagnia; perché ultimamente la banda del Tega si era un po’ dispersa, nonostante la sua storia, nonostante la sua gloria.
Si era formata nei fantastici anni delle odiate scuole medie, quando il Tega, pluri-ripetente, a 15 anni si ritrovò a capo di un gruppo di dodicenni, i quali, anche se condividevano lo stesso anno scolastico, lo vedevano come il fratello maggiore, il compagno più adulto, quello con più esperienza di vita. Il leader, insomma. Ma, soprattutto, lui era quello che poteva regolarmente circolare in motorino, grazie alla sua età. Per cui non pochi tra quei giovani imberbi, che ritrovavano di fronte ad una nuova religione dopo quella impostagli dai genitori, andavano in giro a dire: ”Anch’io un giorno come il Tega, …”
Qualche anno più tardi, quando tutti compirono i loro primi 14 anni, le strade del Zelarinese si videro invase da adolescenti centauri, in sella a ciclomotori di ferro e plastica, regolarmente elaborati per essere più veloci, rumorosi e inquinanti. E le mete dei loro viaggi erano regolarmente la piazza della chiesa per incontrarsi con le ragazze, i campi più nascosti agli occhi umani per bevute e fumate clandestine, ed in fondo allo scantinato di qualche amico per dissotterrare vecchi giornali porno e darsi all’arte onanistica.
Ma quei tempi cominciarono a venire meno quando gli amici del Tega, raggiunta la maggiore età, si convertirono alle borghesissime auto e moto giapponesi, che, sì, forse erano più veloci e aerodinamiche dei vecchi Garelli elaborati,… ma volete mettere quelle colorate lucide e superficiali carrozzerie di plastica, con il vissuto di un telaio vecchio di vent’anni sporco d’olio?
Volete mettere la fredda perfezione di un motore progettato da qualche ingegnere nipponico, con la forma plasmata e plasmabile, in continua evoluzione e trasformazione di un motore elaborato, figlio ibrido di una orgiastica unione tra pistoni di diversa etnia?
Eppure il Tega si ritrovò solo nella sua fede,e lui, moderno integralista religioso, continuò a sporcarsi le mani infilate tra proibiti meccanismi e ingranaggi.
E a nulla servirono le sollecitazioni dei suoi amici…
“ Dai Tega, cresci anche tu, che te ne fai di questi catenacci.. fatti la patente, e il cellulare che adesso ce l’hanno tutti… e poi cosa credi, senza macchina come pensi di trovartela una donna?… non vorrai ancora andare dietro alla Cinzia… lo sai che lei ce l’ha tempestata di diamanti, no?”
No, in fondo la Cinzia non era così preziosa, anzi per piacerle bastava essere di buona famiglia, ben educati e sempre con buone intenzioni. Le buone intenzioni non mancavano certo al Tega, ma era negli altri due requisiti che era più carente. Eppure, il Tega e la Cinzia, da bambini facevano dei giochi poi scoperti proibiti, nella cameretta di lei. Ed alle medie erano stati pure insieme, e quei gran baci dati dietro i materassi della palestra scolastica non se li scorderanno di certo né lui né lei né gli insegnanti che sistematicamente li scoprivano.
Ma il sesso vero quello no…
Per quello il Tega, come molti ragazzi prima e dopo di lui, si era rivolto alla Vianna, che aveva il merito di aver sverginato buona parte della periferia mestrina. Di cervello e amici ne aveva pochi, ma di seno e amanti il Buon Dio l’aveva ben rifornita. La chiamavano puttana, ma era molto a più buon mercato di tante altre. E così, pochi mesi dopo che la sua ragazza gli aveva dato il buon servito, il Tega andò a trovare la Vianna a casa sua nel giorno di riposo da lavoro. Non fu difficile convincerla. Il difficile era cercare di essere all’altezza della situazione. La ragazza, che aveva un’età indefinita tra i 15 e i 35 anni, ne sapeva tanto sul sesso quanto il Tega ne sapeva sui motori. Gli fu quindi naturale, per resistere e non lasciarsi travolgere subito dall’emozione, pensare alla Giamaicana. Per un attimo pensò anche alla Cinzia, ma gli parve una cosa poco carina da farsi.
Sapeva che lei era qualcosa di veramente prezioso, superiore a lui. E anche se, quando la Vianna lo sverginò, erano passati alcuni mesi da che si erano lasciati, gli sembrava ingiusto confonderla con quella prostituta.
In fondo la Cinzia era buona e gli voleva bene.
E il Tega era pure convinto che lei aveva avuto ragione a lasciarlo, anche se non si capiva bene il perché. “Io non sono una marmitta da elaborare” gli aveva detto. Lui non ci capì molto, ma detto da lei sembrava una frase tanto intelligente.
E poi lei lo trattava sempre come un fratello. Ed aveva pure convinto suo padre ad assumerlo nella fabbrichetta familiare, quando finalmente ebbe finito le medie e si sapeva che ogni strada scolastica gli era preclusa.
Nel capannone dietro la villetta, la premiata ditta Fas** aveva cominciato la sua fortunata attività producendo gondole in miniatura, per turisti giapponesi in frettolosa visita a Venezia. Con gli anni e con il successo si allargò con torri pendenti di Pisa e Colossei, e, ma solo ultimamente, anche Torri Eiffel e qualche statua famosa. Fu proprio in quella catena di montaggio di opere d’arte che iniziò tutto…

Un giorno il Tega inavvertitamente fece cadere un intero stock di Veneri di Milo con le braccia. Quelli che dovevano essere prodotti infrangibili si rivelarono molto più deboli del previsto, e si frantumarono in una miriade di pezzi.
Per tutta risposta il padrone dell’azienda cominciò a rincorrerlo con una spranga in mano.
All’inizio per tutto il capannone, poi per il giardino dietro casa, infine per strada, il Tega a bordo della sua Giamaicana e il padre di Cinzia con il suo Fiorino.
La corsa fu estenuante, ma il Tega ancora non sapeva quanto essa sarebbe stata fondamentale per la sua vita.
Una volta usciti dalla Castellana, in direzione della tangenziale, l’annoso problema del traffico di Mestre giocò a favore del nostro eroe: il signor Fas** si ritrovò bloccato tra fondamentalisti consumatori clienti dell’Auchan, impiegati prozac dipendenti in vana fuga dall’ufficio, pullman carichi di turisti giapponesi teleoperatori digitali, dipendenti comunali dediti alla riasfaltatura dell’asfalto stradale e cingalesi spacciatori di rose. Ma il Tega no, lui poté avanzare agilmente col suo scudiero verso la salvezza, perché due ruote in meno fecero la differenza.
Sembrava una storia destinata ad avere un lieto fine, finché la paletta rossa non si alzò di fronte a lui.
- Dove el pensa de andar- disse il vigile con un chiaro accento siciliano –
- C..come?- balbettò il Tega-
- Non sa che non se pol andar par la tangensial in motorin?-
- N-no…-
- Ben ciò,… ma scusi par caso xe elaborà stò motorin?-
- Bè…l’ho un po’ ripitturato…-
- Ripiturà? A mi me par ristrutturà, minch…casso!!-
La multa fu salata come un indennizzo di guerra, ma ciò che più scottò al nostro eroe fu il fatto di essere stato bloccato quando nessuna legge fisica non lo avrebbe mai potuto fermare, per un divieto che non valeva per le ingombranti borghesi automobili, che regolarmente si ritrovavano imbottigliate nella tangenziale, ma che valeva per la giamaicana.
Per la prima volta da che ricordava sentì un fortissimo sentimento di insoddisfazione per un’imposizione non accettata, e contemporaneamente un’attrazione innaturale per quella strada che gli era stata proibita, il tutto miscelato ad un desiderio fortissimo: quello di attraversare la tangenziale con la Giamaicana.
E fu così che nacque la sua fissazione. La fissazione per la quale i suoi amici lo denigravano e lo spronavano a rinunciare. La fissazione per la quale ogni singolo giorno la Cinzia lo rincorreva per la fabbrica con una rabbia che manco suo padre aveva, e con una preoccupazione che il Tega mai le aveva visto addosso e che non capiva, come anche il di lei ragazzo, poco felice di quelle attenzioni.
Però nessuno riuscì a distogliere il Tega dalla sua missione perché la sua determinazione non aveva pari.
Ma perché il suo progetto andasse in porto e per essere sicuro di non essere fermato da altre palette rosse, doveva perfezionare il suo mezzo.
La Giamaicana doveva scomporsi e reincarnarsi in qualcosa di diverso, simile nell’aspetto esteriore ma profondamente modificata nella sua struttura interna, per essere più agile e veloce, più di quanto lo fosse già.
Il Tega cominciò, così, ad aggirarsi, nelle buie sere d’inverno, per spettrali cimiteri d’auto, coperto da un impermeabile nero. Tra chiazze di pozzanghere di olio nero, di cui si nutriva il terreno, e cadaveri d’auto sventrate, si accanì nel frugare tra funeree carrozzerie e trapassati telai, ed espiantare pezzi di motori che furono, organi ancora buoni per praticare innaturali innesti.
Con il frutto del suo empio bottino il Tega passò notti intere, dentro il suo garage chiuso a chiave, a lavorare sul suo mezzo, svitando, sbullonando, stringendo, saldando, staccando, allargando, oliando, raschiando e incastrando ogni singolo frammento di quello che alla fine avrebbe costituito la sua opera finale. E alla fine di tutto, esausto, piegato sulle ginocchia, con la chiave inglese che gli scivolava dalla mano per franare sul pavimento, guardò la sua creatura come per chiedergli “…e ora dimmi qualcosa” , ed essa, con il riflesso di un raggio di luna sul fanale anteriore, ironica e beffarda, sembrò rispondergli: “Accendimi”.

Il giorno era arrivato.
Aspettò che il sole calasse, per avere l’oscurità come alleata.
Aspettò l’ora di massima punta, in cui tutte le macchine confluivano insieme strozzando il flusso, per avere maggiori chance contro le forze dell’ordine.
E poi mise in atto il suo piano.
Percorse la Castellana, poi superò senza fatica il ripido cavalcavia dell’Auchan, spiato dall’uccellone rosso dell’insegna. Quindi inforcò le due rotonde prima della Tangenziale; diede un’occhiata in giro non vide nessun vigile, né poliziotto, né carabiniere che potesse fermarlo. Si buttò allora dentro la rampa che lo avrebbe portato nel luogo del delitto. C’era una coda ma lui la superò agilmente e finalmente si trovò dentro a quella lingua d’asfalto a due corsie più corsia d’emergenza (a volte) che agganciava l’Italia all’Europa, l’est all’ovest e attraverso la quale tutti i terrestri dovevano passare almeno una volta nella vita.
Subito il Tega si trovò a rischiare la vita perché un autotreno proveniente da chissà quale ex paese comunista lo voleva schiacciare contro il camper di un crucco che aveva sbagliato la strada per Jesolo. Ma il ragazzo con una rapida mossa acceleratore-frizione-marcia-acceleratore riuscì a togliersi dall’impiccio e salutò il bestione con un dito alzato.
Il rabbioso clacson del tir ruggì la parola vendetta, ma il traffico strozzato gli impedì di realizzarla.
Una pantera dei caramba puntò lo sguardo sulla piccola zebra che attraversava impunitamente la savana ed emise il richiamo della sirena per indurla a fermarsi, ma vedendola scivolare veloce tra le bestie addormentate, la identificò come una preda troppo difficile da catturare, e la lascio andare tornando anche lei a sonnecchiare.
L’unico a non sonnecchiare era proprio il Tega. Anzi, mai in vita sua si sentì così eccitato, tant’è che mentre correva le macchine attorno a lui cominciarono per incanto a scomparire, per lasciare spazio al fondo stradale. Una enorme strada tutta per lui: cosa poteva desiderare di più dalla vita. E mentre si gongolava, senza accorgersene superò l’uscita di via Miranese…e come poteva accorgersi considerando quello che c’era intorno a lui!…
Le luci dei lampioni si succedevano in file che cercavano di resistere, piegandosi o curvandosi, al richiamo dell’infinito inutilmente e, come risucchiati dalla prospettiva, alla fine cedevano anche loro, come il Tega, come la Giamaicana.
Mestre passava sotto di lui, invisibile come sempre.
Venezia era solo un fantasma lontano alla sua sinistra sopra il manto grigio della laguna.
Porto Marghera era un castello delle fiabe e le luci delle sue torri, e i fuochi e i fumi che uscivano da esse, erano come fate e folletti che danzavano nella notte.
Il Forte AGIP, ultimo bastione dell’entroterra mestrino, si ergeva tutto ad un tratto sulla tangenziale a difesa dell’ultima uscita, quella di Marghera. L’ultima occasione per uscire …e poi c’era l’autostrada. Ma il Tega non colse questa occasione e continuò dritto per la sua strada. Il casello si avvicinava di fronte a lui. Ma quello ormai non era più un problema per chi era riuscito a sfrecciare nella tangenziale bloccata con il suo motorino: bastava mettersi sulla fila della Volkswagen di un crucco col telepass e poi sfrecciare via pregando iddio che qualche caramba non fosse là in zona pronto a sorprenderti.
Non più difficile che farsi il chopper o montare una marmitta lavorata a dovere.
“In fondo la libertà è una questione di elaborazione”.
Il pensiero gli attraversò la mente, nato chissà dove. Gli sarebbe piaciuto fermarsi per dirlo anche a Cinzia, ma le luci dell’autostrada, lì davanti, venivano sempre più risucchiate dall’infinito.
E il Tega non poteva far altro che seguirle.



Nel Zelarinese andarono avanti tre mesi a chiedersi dove fosse andato a finire il Tega.
Poi tutti si rassegnarono a ridurre anche lui ad una leggenda metropolitana. I soliti maligni dicevano che fosse stato messo dentro una clinica per tossicodipendenti. Per altri ancora, invece, l’overdose lo aveva colto prima che potesse entrarci. Chi non voleva credere a queste cattive voci assicurava che, moderno corsaro, continuava a girare per le autostrade di mezzo mondo rincorso da polizie di tutte le nazioni. Ma queste erano dicerie di chi in fondo non lo aveva mai conosciuto. I suoi amici preferivano non parlarne oppure, se interrogati, si limitavano ad un’alzata di spalle. Gli anni erano passati per tutti loro: si erano sposati, con figli station wagon e posti fissi, e il Tega proprio non poteva trovare posto tra tutte quelle incombenze.
Anche Cinzia si era sposata; aveva trovato un bravo ragazzo di buona famiglia. L’ha portata ad abitare in un bel appartamento nella centralissima piazza Ferretto: ogni tanto di notte nella sua stanza da letto chiude le labbra tra i denti. Ma poi scaccia subito i suoi pensieri fuori dalla finestra.
Anche la Vianna ha avuto un figlio: dice a tutti che è figlio del Tega. Ma il bambino, che ormai ha dieci anni, è abbastanza sveglio da capire che il suo è un cognome di comodo e che suo padre potrebbe essere uno dei tanti uomini senza nome che entrano ed escono dalla stanza della madre, i quali, però, non avevano avuto il buon gusto di sparire… Però essere figlio di una leggenda metropolitana può avere i suoi vantaggi. Soprattutto quando tua madre è una puttana, diventa una buona arma per uscire vivo dalle medie, e per diventare qualcuno di cui parlare, e ritrovarsi circondato da ragazzini, incuriositi dalle avventure di un fantomatico padre, che dicono “anch’io un giorno come il Tega….”
Foto scattata a Recanati....che sia arrivato fin la' il Tega? non lo so. Io si però. Ma questa è un'altra storia......

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