martedì 18 dicembre 2007

L'ENNESIMO BLOG....

Ciao a tutti.
Benvenuti nel mio blog.

Ebbene con il mio classico ritardo sulle innovazioni tecnologiche (chi scrive qui ha comprato il videoregistratore quando ormai tutti usavano il lettore DVD, ha preso il primo cellulare nel 2001 e chiama ncora la Telecom come Sip, e MTV come Videomusic) mi sono fatto anch'io il mio blog.

Non sarà il primo. Presto ne farò uno più "politico". Questo lo lascio al piacere della scrittura e alle mie passioni più "leggere".

A cominciare dal cinema.

Qualcuno di voi ha sicuramente individuato la fonte da cui è tratto il titolo del blog. Non cado nella banalità di citarvela direttamente, ma vi riporto il "monologo" per intero in italiano e in inglese. e poi vi rimando alla sequenza relativa tratta da You Tube e all'articolo più in sotto, già pubblicato dal sottoscritto su L'Avocetta (www.lavocetta.it), come "commento" del primo quarto di secolo compiuto da questo film.

« Io ne ho viste cose che voi umani non potreste immaginarvi.
Navi da combattimento in fiamme al largo dei bastioni di Orione,E ho visto i raggi B balenare nel buio vicino alle porte di Tannhäuser.E tutti quei momenti andranno perduti nel tempo...come lacrime nella pioggia.È tempo...di morire. »

« I've seen things you people wouldn't believe.
Attack ships on fire off the shoulder of Orion.I watched c-beams glitter in the dark near the Tanhauser Gate.All those ... moments will be lost in time,like tears...in rain.Time to die. »




25 ANNI FA MORIVA ROY BATTY

Questa volta parto dall’articolo di qualcun altro.
Precisamente dal pezzo di Irene Bignardi, pubblicato su Repubblica del 3/6/2007, intitolato E.T. e Blade Runner : lezione aliena, al cui recupero invito i lettori di questo sito.
Parto da lì per scrivere solo su uno di quei due film, che di strettamente comune avevano ben poco: 1) il fatto che sono stati realizzati entrambi nel 1982; 2) il fatto che sono stati rieditati con modifiche successivamente ( e con scarsi successi); 3) il fatto che entrambi appartengono quel rinascimento fantascientifico che attraversò le cinematografie di lingua inglese tra gli anni settanta e gli ottanta (Bignardi riporta una simpatica definizione di Ridley Scott, ossia “l’estetismo NASA”, derivato dal fatto che gli apparati fanta-tecnologici di questi film sembravano tutti nipotini delle missioni Apollo che avevano portato l’Uomo sulla Luna).
Alle diversità tra le due opere (e al comune affetto nostalgico) rimando alla lettura della Bignardi. È interessante però ricordare che, fino ad almeno 10 anni fa, chi aveva la pretesa di farsi vedere vagamente cinefilo asseriva la netta differenza tra i registi dei due film, Steven Spielberg e Ridley Scott.
Spielberg era il cinema venduto al commercio, il regista di pupazzoni e mega produzioni, bravo solo a fare film evasivi, mentre Scott era il genio, il regista impegnato. Poi il tempo ha saputo dirci che forse le cose non erano proprio così impostaste: Spielberg, oltre ai vari Jurassic Park, ci ha regalato Il colore viola, Schindler’s List, Munich, Amistad…Scott, invece, dopo il grande trittico iniziale (I Duellanti, Alien, Blade Runner) non ha saputo mantenere lo standard dei suoi esordi, tenendo conto che in seguito è riuscito a far parlare veramente di sé solo con Thelma e Luise e Il Gladiatore, sulla qualità dei quali ci sarebbe molto da discutere (più per il primo, che per il secondo..). Insomma, mentre il collega, senza rifiutarne la centralità, dimostrava comunque che l’estetica è prima di tutto una grammatica, Scott si è via via lasciato andare ad un uso dell’immagine fine a se stessa, più vicina ad una cultura pubblicitaria (da cui lui proviene) che ad una cinematografica, pronta a riciclarsi per la storia di una donna marine finta femminista (Soldato Jane), o l’ennesimo sequel sullo psichiatra cannibale (Hannibal).
Eppure bisogna riconoscere a Scott una vittoria sul collega, dal momento che Spielberg un film bello come Blade Runner non l’ha mai realizzato. Ed è un primato che vale nei confronti di molti registi. Perché non stiamo parlando solo di un film. Parliamo del Film, trattandosi una di quelle opere che irrompono nel campo del cinema rinnovandolo, inventando dal nulla un mondo non reale, che è allo stesso tempo una visione del mondo reale, e proiettandolo nell’immaginario collettivo, dove vi rimarrà sempre custodito.


È il Film che ha influenzato ciò che cinematograficamente veniva dopo di esso, anticipando anche quello che stava per nascere in altri campi (William Gibson, inventore del genere Cyberpunk, fu quasi colto da infarto vedendo Blade Runner, riconoscendo il mondo che lui aveva ricostruito nel suo primo libro, prima ancora che questo fosse uscito), e ispirando tutta una serie di fumetti, libri e giochi. È il Film i cui dialoghi (e soprattutto il monologo finale di Roy Batty prima di morire) sono stati recitati da un’intera generazione di spettatori.
E il merito di questo non si può nemmeno declinare al grande genio di Philip K. Dick, dal cui romanzo Do Androids dream of eletttric Sheep? (Gli androidi sognano pecore elettriche? In Italia anche con il titolo Cacciatore di androidi) fu tratto il film; per due motivi fondamentali. Innanzitutto, perché quando Spielberg (ma questo vale anche per altri registi) trasse da un altro dei suoi romanzi Minority Report, non ottenne lo stesso risultato e nemmeno lo stesso successo. E poi perché in comune con il romanzo d’origine il film ha veramente poco: l’idea iniziale, i nomi dei personaggi principali, e il celebre interrogatorio con il sistema Voight-Kampf, grazie al quale il protagonista Rick Deckard capisce se di fronte a sé ha un’autentica persona o un replicante (o un androide per quanto riguarda il romanzo). Per il resto il film prende strade diverse anche per quanto riguarda i significati, rispetto al suo padre letterario.
Gli androidi del romanzo sono simulacri (per usare un termine Dickiano), versioni distorte degli umani, delle copie che della genia originale hanno gli aspetti più negativi. Rappresentano la meta ultima di arrivo di un'umanità già sprofondata, ma comunque ancora in bilico tra un baratro e una difficile risalita. Insomma, gli androidi come minacciosa evoluzione degli uomini. Incapaci di provare empatia, votati alla dissimulazione e alla violenza.
Nel film invece i replicanti proprio per la loro natura aliena, diventano più umani degli umani, proprio perché la mancanza di umanità (identificata da una vita a breve termine) li spinge a ricercare la medesima. Una sorte di ricerca del Graal a cui gli stessi uomini hanno rinunciato, rassegnati ad attraversare una piovosa e notturna megalopoli, pedoni guidati da segnali stradali video-sonori che dicono loro quando fermarsi e quando camminare, afferrati ad una tecnologia disumanizzata che non sanno più controllare, o ad inutili apparecchi come ombrelli dal manico fosforescente.


Il protagonista Deckard sembra anch’egli un rassegnato, investigatore senza vocazione, piuttosto maldestro, lontano dall’eroe tipico (Harrison) Fordiano tutto azione e vittorie. Dei quattro replicanti a cui dà la caccia, uccide piuttosto poco cavallerescamente le due donne disarmate, si fa quasi uccidere dal terzo, e viene salvato da una mortale caduta dal quarto. Si riscatta portando in salvo fuori dalla città la sua ragazza, anch’essa replicante (ma solo nella versione originale; nel Director’s Cut Scott gli priva pure la fuga nella campagna).
Ma del resto Deckard è solo un mezzo per portare lo spettatore attraverso la vera protagonista del film: la metropoli, nera ed enorme, mostruosa e bellissima allo stesso tempo. Città del futuro? No, la città dell’oggi. Quello che Scott raffigura è l’anima più dark di quegli anni ottanta che erano appena iniziati. Nella pellicola troviamo molti elementi che hanno caratterizzato in maniera particolare quegli anni: le potenti multinazionali arroccate sui grattacieli, una rivoluzione tecnologica industriale (quella robotica-genetica nel film, quella informatica nella realtà), l’ossessione per il corpo, la malattia, la paura della vecchiaia, la sovraesposizione televisiva e pubblicitaria.

Insomma, un contraltare scuro e negativo dell’euforia Yuppistica di quel decennio, e allo stesso tempo una pietra tombale del lontano ricordo delle speranze legate agli anni sessanta.
Blade Runner è diventato, quindi, uno dei più classici esempi di una fantascienza che descrive un angosciante futuro che trova il suo preludio nel mondo di oggi. E quasi nessun altro film è riuscito come questo ad introiettare nella cultura collettiva l’immagine di un domani così pessimista, di un’umanità così degradata senza scivolare nello scontato o nel ridicolo. È questa immagine è tanto più potente se si considera che quella grigia massa umana che si muove sotto la pioggia all’unisono coordinata da un segnale stradale, non è schiava di un dittatore o di un totalitarismo. Non c’è un Grande Fratello a guidarli, e non c’è nessuna matrice creata dalle macchine. Certo, ci sono le grandi corporazioni economiche a spadroneggiare, e si accenna ad un accentuato potere della polizia. Ma sono arrivati a quella condizione da soli, spontaneamente e passivamente. Una schiavitù autodeterminata….
Ci si perderebbero pagine e pagine ad enucleare tutti i significati, i simboli, voluti o no, manifesti o celati, di questo film: dalla paura della morte, al rapporto con l’artificiale, dal confronto Uomo-Dio, a quello tra verità e finzione. Mi fermo qui considerando che a ben 25 anni dalla sua uscita nelle sale nessun film di fantascienza è poi riuscito ad eguagliarlo in capacità evocativa e potenza visionaria (semmai sono stati molti i tentativi di clonarlo).
E a soli 12 anni di distanza dalla data di ambientazione della sua trama, possiamo constatare che inutili ombrelli con il manico fosforescente non ce ne sono.
In compenso abbiamo telefoni che fanno le foto.

Nicola Da Lio

Alcune considerazioni sul Director’s cut…
Che Ridley Scott avesse dovuto piegarsi alla volontà del produttore nel finale del film, è cosa risaputa. Il Director’s Cut uscito negli anni ‘90 doveva in qualche modo ripagare il regista del torto subito. Ma sarebbe sbagliato supporre che con esso lo spettatore si trovi di fronte alla vera versione originale voluta dal regista. E, a mio parere, nemmeno ad una versione per qualità superiore a quella uscita nel 1982.
Ma vediamo le differenze tra le due edizioni.
1982: Deckard, dopo la morte di Roy Batty, torna a casa per recuperare Rachel, la replicante sua amante. Sul pavimento trova un origami a forma di unicorno. Segno che il poliziotto Gaff, che si diletta a fare pupazzetti con la carta, era già passato per uccidere Rachel, ma non ha voluto portare a termine la sua missione: Rachel è viva. La ragazza e Deckard fuggono insieme dalla città. La voce off di Deckard ci dice che Rachel è diversa rispetto agli altri androidi; potrà vivere a lungo senza data si scadenza. Seguono immagini in movimento di un paesaggio naturale (boschi e montagne), verso il quale si dirigono i due innamorati (le immagini del paesaggio erano state ricavate dal materiale di scarto di Shinning di Kubrick).
1992: Deckard, dopo la morte di Roy Batty, torna a casa per recuperare Rachel, la replicante sua amante. Sul pavimento trova un origami a forma di unicorno. Segno che il poliziotto Gaff è già passato per la casa, ma soprattutto che anche Deckard è un replicante! Infatti precedentemente, Deckard aveva sognato degli unicorni (scena non presente nell’originale e tratta dal film successivo di Scott: Legend). Gaff lo sa, il che vuol dire che sono memorie artificiali, fatto che denuncia la natura non umana del protagonista. Scena successiva: i due amanti escono dall’appartamento di lui. Fine. Nessuna fuga dalla città verso la campagna. Nessuna diversità per Rachel, e nessuna speranza di salvezza.



Effettivamente si può dire che la prima versione presenta un happy end che può stridere con la storia cupa che ci sta dietro. Ma in realtà essa riesce proprio ad essere efficace nel suo contrasto con la scena topica del film: il monologo di Roy Batty / Rutger Hauer (Ho visto cose che voi umani…) e la sua successiva morte. Batty si arrende al suo destino e alla morte, ma allo stesso tempo salva da sicura morte il suo nemico Deckard. La successiva fuga dei due amanti rende completa la sublimazione salvifica (possiamo dire Cristologica? Non dimentichiamo il simbolismo delle colomba bianca) di Batty, e contribuisce a determinare nella scena della sua morte il punto centrale del film.
Nel Director’ Cut, oltre a non esserci la salvezza, troviamo l’agnizione di Deckard come replicante. Ecco allora che il punto focale del film si sposta a questo nuovo elemento, togliendo importanza al ruolo di Batty, senza però dare nulla di più che il piacere di un colpo di scena finale.
E soprattutto non è un finale. E semplicemente una scena troncata in anticipo. Almeno il produttore aveva imposto una sua completezza al film. E oltretutto non è nemmeno il finale che originalmente Scott voleva dare al film. In una primissima versione della sceneggiatura Deckard uccide Rachel (previa fuga dalla città). In una seconda versione, i due scappano dalla città, sebbene braccati da Gaff, con un Deckard consapevole di essere un replicante, ma anche di possedere una superiorità nei confronti del genere umano e una fratellanza con Batty. Due finali che offrono ben altro rispetto al moncherino del Director’s.
Ma l’amputazione maggiore subita dal film è l’eliminazione della voce fuori campo con i pensieri di Deckard, sebbene presente anche nelle sceneggiature originali. Il perché di questa scelta? Per renderlo più criptico, direbbe qualcuno (della serie più non ci capisco niente di un film più quel film ha valore). Io avanzerei un’ipotesi: nella prima versione i pensieri di Deckard intervengono in ogni momento importante della storia, per meglio spiegare la situazione o la reazione del protagonista ad un determinato evento. Mettendo come finale, nella seconda versione, la scoperta della natura replicante del protagonista, sarebbe sembrato strano che non si sentissero i suoi pensieri a commento di essa. Non essendoci poi questa scoperta nella prima versione, e non potendo richiamare Ford a recitare dopo dieci anni una nuova battuta, i pensieri non potevano essere inseriti. Come risolvere questa discordanza? Semplice. Togliendo da tutto il film la voce fuori campo!
Insomma il Director’s Cut non è la versione originale. Quella originale resta la versione dell’82, forse con qualche imposizione di troppo da parte del produttore, ma sicuramente quella più completa e coesa. E, in ogni caso, un’Opera (e quindi anche un film) nel momento che diventa fruibile al pubblico, non è più dominio del suo Autore (o Regista, o Produttore), ma appartiene a tutti coloro che decidono di amare quell’opera, di darne la loro interpretazione, insomma di renderla propria. Produttori e registi si fermano nel momento in cui si accende il proiettore in sala.

N.D.L.