lunedì 27 dicembre 2021

"È STATA LA MANO DI DIO" DI PAOLO SORRENTINO

Il limite più grande di Sorrentino è sempre stato se stesso. O, ancor meglio, la tentazione di farsi trascinare dall'estetica della sua grammatica cinematografica, rischiando in alcuni momenti che essa sia fine a se stessa. Da qui la distinzione tra le opere più riuscite (Il divo) e quelle meno riuscite (Loro). Per fortuna ne È stata la mano di Dio, presentato in concorso all'ultima Mostra del Cinema di Venezia, riesce ad evitare questo rischio rinunciando, per una volta, a raccontare la storia di un personaggio larger than the life, e concentrandosi su una storia più intima, addirittura autobiografica. Finalmente un Sorrentino che non è il solito Sorrentino, ma che ci racconta di Sorrentino. Lo spunto è la giovinezza del regista, quell'adolescenza in cui perse i genitori mentre la sua città, Napoli, si ubriacava di Maradona. Un'occasione, per incrociare tra loro temi quali l'elaborazione di un lutto, lo spirito di Napoli, e la vocazione che può portar un giovane a diventare regista. Con due fantasmi che aleggiano su tutto. Ovviamente, il primo è il già citato Pibe de oro. Il secondo è il fantasma di Fellini, citato direttamente, tanto da entrare in un suo set e sentire la sua voce, ma anche indirettamente, attraverso suggestioni che collegano il film ad Amarcord. Ed in fondo questo è l'Amarcord di Paolo Sorrentino, così come la Grande Bellezza era la sua Dolce Vita. Il rimando a Fellini può suggerire un cinema, una fuga dalla realtà. Ma Sorrentino in fondo non rinuncia mai alla realtà. L'incontro con il regista Capuano racconta infatti l'altra metà della sua poetica, il suo desiderio di raccontare storie, luoghi e persone vere. Semmai Sorrentino esalta la realtà iperbolizzandola. Basta vedere come rappresenta questa sua famiglia simpaticamente disfunzionale, che attraversa la vita, compresi i suoi drammi sempre tra l'ironia e l'allegoria. Grande prova di attori (con un Servillo efficacemente defilato, e non al centro della storia, stavolta) per un film che ha portato a casa il Leone d'Agento: forse meritato, forse inutile, visto già l'ampio riconoscimento ricevuto dal regista negli ultimi anni. A questo riconoscimento si sono comunque aggiunti il Premio Mastroianni all'attore esordiente Filippo Scotti, protagonista dle film, e l'onore di essere nella shortlist per il migliore film internazionale agli Oscar.

lunedì 11 ottobre 2021

Dune- di Denis Villeneuve

 





Un pianeta ricoperto interamente di sabbia. Nobili casati che si fanno la guerra per il suo controllo. Un Impero galattico sull'orlo di una crisi. Una sostanza preziosissima che può dare sovrannaturali poteri. Un giovane destinato a diventare guida militare e religiosa di un popolo nomade e guerriero...


Questa la trama molto sintetica di Dune, film che ha attraversato la Mostra del Cinema di Venezia 2021 nei suoi giorni di apertura, e poi le sale di tutto il mondo.


Il romanzo Dune di Frank Herbert sta alla fantascienza come Il Signore degli Anelli sta al fantasy epico.

Forse l'importanza nella storia della letteratura non sarà la stessa, ma come influenza nel genere di appartenenza siamo più o meno allo stesso livello. Probabilmente, infatti, non avremo avuto Star Wars senza Dune.

E' chiaro quindi che la trasposizione di tale opera a livello cinematografico ha la sua difficoltà di base vista l'aspettativa che può creare.

Ancor di più se pensiamo che Lynch aveva già portato sul grande schermo le sabbie di questo pianeta negli anni '80(c'è stato nel frattempo anche un quasi sconosciuto serial tv, per quanto di lusso). Non fu accolto bene né da pubblico né da critica; ma nel tempo è diventato un cult, e, per come l'ho visto io, era riuscito a condensare in poco più di due ore la trama complessa del libro. E non va sottovalutato il fatto che Lynch riuscì a metterci qualcosa di suo, con un'estetica che tendeva a un barocco che enfatizzava corpi deformi (elementi comunque presenti nel libro).


Ora ci riprova quindi Denis Villeneuve, regista canadese, che si è dovuto confrontare con il precedente letterario e con il precedente cinematografico.

E' necessaria un'altra versione al cinema? Sì, se è per dare giuste dimensioni di racconto, di epicità, di spazi e grandiosità in generale alle pagine di Herbert.

E Villeneuve su tutto questo coglie nel segno. Forse il barocco Linchiano in certi momenti manca, così come la morbosità legata ai corpi. Qui è tutto più asettico, lineare. Ma è anche lo stile di Villeneuve, già espresso in altri suoi film. Qui lo applica dando un'omogeneità generale alla visione dei mondi di Dune, rendendolo un universo coerente.


Un film perfetto? Non proprio, e pure meno convincente rispetto alle altre due opere fantascientifiche di Villeneuve (Arrival e Blade Runner 2049). Ma è anche solo la prima parte di una storia, bisognerà attendere il secondo episodio (se verrà realizzato) per avere un giudizio più complessivo.

Ma intanto abbiamo potuto avere l'assaggio di due ore e mezza di una storia epica e spettacolare, in cui difficilmente si riesce a non rimanere stupiti di fronte ad alcune scene. E' fantascienza adulta, ma è anche cinema nella sua massima forma.


Un difetto, a cercarlo, sta forse in un cast fatto di troppi big, in cui Jason Mamoa e Josh Brolin sembrano interpretare Jason Mamoa e Josh Brolin, piuttosto che i loro personaggi. Molto meglio Oscar Isaac (l'iconico Duca Leto) e Rebecca Ferguson, (sebbene sia un po' giovane per interpretare la madre del protagonista). Confidiamo nei giovani protagonisti, Timothée Chalame e Zendaya, sperando che si lascino andare un po' di più nella seconda parte, anche per compensare lo stile asciutto, a volte un po' troppo, del regista.


domenica 5 gennaio 2020

MARRIAGE STORY /STORIA DI UN MATRIMONIO di NOAH BAUMBACH


con Scarlett Johansson, Adam Driver, Laura Dern, Alan Alda, Ray Liotta, Julie Hagerty / USA / 135’




Ormai abituati a vederli in film pieni di eroi ed effetti speciali, fa un po' strano vedere Adam Driver e Scarlett Johansson in un film tutto intimismo, famiglia, risate e (grandi) litigi. E riscoprire (ancora) quanto sono bravi.
Coppia sposata si separa, prima apparentemente in maniera pacifica, e poi scatenando avvocati e contesa del figlio. Sembra quasi un trattato scientifico sulla fine di un matrimonio, sapendo però evitare cose già viste, e affidandodsi alla bravura degli attori.
I due protagonisti sono bravissimi nel passare dal registro drammatico a quello da commedia da una scena all'altra. E bravi anche i comprimari. In primis Laura Dern, nei panni di una diabolica avvocata divorzista. Ma troviamo anche un invecchiato ma feroce Ray Liotta, un dolce Alan Alda, e una ritrovata Julie Hagerty (L'Aereo più pazzo del mondo) nella parte della divertente mamma del personaggio della Johansson. Chissà se qualcuno si aggiudicherà l'Oscar. 
Presentato alla mostra del Cinema 2019 (uscendone senza premi), è prodotto e "trasmesso" da Netflix. 

sabato 4 gennaio 2020

J'ACCUSE/L'UFFICIALE E LA SPIA di ROMAN POLANSKI

con Jean Dujardin, Louis Garrel, Emmanuelle Seigner, Grégory Gadebois / Francia, Italia / 126’



L'Affare Dreyfuss, ossia il più clamoroso scandalo politico e giudiziario, che sconvolse la Francia tra fine '800 e inizio '900, secondo Polanski. Il film riprende il caso dell'ufficiale di orgini ebree condannato ingiustamente per spionaggio, con una meticolosissima ricostruzione storica, attenta ad ogni dettaglio e scenografia. Ed il tutto è girato seguendo le regole base delle detective story e delle pellicole d'inchiesta.
Le due ore del film scorrono bene nonostante il groviglio degli intrighi della trama ed i tanti personaggi. E il sottotesto politico, con il parallelismo alle manifestazioni d'intolleranza dei nostri giorni, è chiarissimo.
Unica nota negativa: la confezione assomiglia troppo ad uno sceneggiato televisivo di lusso.
Presentato alla Mostra del Cinema di Venezia, da dove ha portato a casa il Leone d'Argento. 
Produce Luca Barbareschi.

mercoledì 1 gennaio 2020

STAR WARS - L'ASCESA DI SKYWALKER di J.J. Abrams


Il film è già uscito, alcuni forse non lo hanno ancora visto (male!), altri sì. Per cui ecco due recensioni, la prima senza spoiler, la seconda con spoiler.


RECENSIONE SENZA SPOILER


Alla fine siamo arrivati alla conclusione di questa terza trilogia di Star Wars, la prima a produzione Disney, accompagnata da due spin off di opposte fortune, e da una valanga di polemiche con il mondo dei fan, impensabili quando i social non erano così sviluppati.
E le polemiche non sono mancate con L'Ascesa di Skywalker. Di esso si è detto di tutto e di più, compreso il fatto che abbia tradito la saga di Lucas, ma allo stesso tempo di aver negato il capitolo precedente, oggetto della stessa accusa di tradimento. Un ossimoro non da poco.
Com'è questo capitolo finale? Forse non il migliore dal punto di visto di riuscita cinematografica , ma sicuramente è il più denso di trama, e il più intriso di riferimenti a tutto il resto della saga, avendo il compito di concludere alla fine una storia raccontata in nove film (più “derivati”). E siccome è un mestierante, che di storytelling e di cinema ne sa qualcosa, Abrams riesce nell'impresa.
Quello che però lo mette chiaramente in difficoltà è il contesto produttivo in cui si ritrova. La gestione del franchise da parte della Lucasfilm senza Lucas è stata caratterizzata da una scarsa organizzazione editoriale della trilogia (complice forse anche il continuo cambio di registi) senza avere un'idea chiara dello sviluppo globale della storia, ma in pratica producendo ogni volta un film a sé stante. Il tutto sfruttando all'inverosimile l'effetto nostalgia del pubblico. Ma con cinque film (comprendendo gli spin off) in quattro anni la nostalgia fa presto a scemare.
Il film aveva quindi il compito di recuperare più elementi possibili della saga, di dare risposte non date, e di provare a dire qualcosa di suo. Insomma, chiudere il cerchio. Il risultato è un po' come avere due pellicole in una (lo sceneggiatore Terrio sperava di avere anche un episodio dieci), con tanti eventi concentrati all'inizio, e molti personaggi sacrificati (Rose Tico in particolare). Si compie un miracolo riportando in scena Carrie Fisher, ma allo stesso tempo le sue battute sembrano messe un po' a forza. In compenso c'è un bello spazio per i personaggi di Rey e Kylo Ren per portare avanti la loro storia, con grande prova degli interpreti. Questo è il loro film, come lo è stata in fondo tutta la trilogia. Inoltre la pellicola sa regalare epicità, scene d'azione frenetiche e scene spettacolari. Ma soprattutto riesce ad emozionare. Insomma, è Star Wars, e merita andarlo a vedere.





RECENSIONE CON SPOILER


I morti parlano!
Così inizia il rullo di scritte che seguono il titolo di questo nuovo e ultimo Star Wars, L'Ascesa di Skywalker.
E infatti parla l'ex Imperatore Palpatine, dato da tutti per morto in quello che fino a quattro anni fa era l'episodio conclusivo della saga, Il Ritorno dello Jedi. E invece qui ritorna anche lui, forse zombie, oppure no, a rivendicare che non c'è nessun altro cattivo che può tenergli testa in quella galassia lontana lontana.
Ma parla pure Mark Hamill/Luke Skywalker, che torna come fantasma della forza, dopo che era dipartito nell'episodio precedente, non tanto amato dall'interprete pur essendone il coprotagonista.
E parla (come visione? Ricordo?) pure Harrison Ford /Han Solo, dopo che ne Il risveglio della Forza aveva ottenuto quello a cui mirava dal 1980: far morire il personaggio. Eppure torna, a rivendicare il ruolo brevemente assegnato ad un attore più giovane nel bello e fallimentare prequel /spin off SOLO.
E parla pure la compianta Carrie Fisher, nel ruolo di Leia, scomparsa nel 2016, grazie ad un fantastico lavoro di maquillage cinematografico che fa sembrare reale la sua presenza nei set, e purtroppo irreale la presenza degli attori che devono interagire con lei.
Perché la verità è che, finché possono “girare”, questi fantasmi cinematografici sono tanto amati quanto ingombranti; e, più sinteticamente, indimenticabili. Da qui gran parte dell'origine dell'astio che ha colpito gli ultimi film di Star Wars.
In fondo il messaggio ce lo lancia lo stesso regista J.J. Abrams in una scena incompresa da molta critica, e cioè quando C3PO perde la memoria, e chiama “il suo più vecchio amico” il primo essere che incontra, e battezza come la sua prima battaglia laser i primi colpi di fucile che vede. In molti lo hanno visto semplicemente come un paio di scene comiche senza senso nella trama. E invece il suo messaggio è chiaro: caro fan di Guerre Stellari, se questo fosse il primo film della Saga, sarebbero questi i personaggi e le situazioni che tu ameresti come un fondamentalista religioso. Ma ci sarà sempre un R2D2 che ti ripristinerà la memoria della battaglia su Yavin, della fuga da Hoth, e della mano tagliata a Bespin. E pure del blocco mercantile su Naboo, e del duello su Mustafar.
Per cui arrendiamoci al mito, rendiamogli omaggio, lasciamo che gli spiriti degli Jedi passati ci invasano e ci invadano, ma allo stesso tempo lasciamo che i nuovi eroi prendano il loro posto nell'universo. Perché alla fine Rey, pur essendo una Palpatine, decide di essere Skywalker: ne ha diritto, come è stato diritto di ogni bambino o bambina che ha giocato negli ultimi quarant'anni fingendo di essere Luke, piuttosto che Han. Il mito non appartiene ad una parte di fan piuttosto che ad un'altra, ma appartiene a tutti.
E il regista rende omaggio chiudendo e tirando le fila non solo di questa ultima trilogia (che ha visto dei buoni film presi singolarmente, ma poca gestione generale) ma anche delle precedenti (che ha visto due trilogie dello stesso autore stilisticamente opposte tra loro).
Lo fa con un film imperfetto, sicuramente il meno riuscito cinematograficamente della nuova trilogia, soprattutto per quanto riguarda i personaggi secondari, troppi e senza necessario approfondimento, e relegando colpevolmente sul fondo Rose, altra coprotagonista de Gli Ultimi Jedi. Ma d'altro canto dà il giusto spazio alla conclusione del duetto Rey /Kylo Ren, coadiuvato dalla grande prova degli interpreti, Daisy Ridley e Adam Driver: che belli i loro primi piani, e quanto è emozionante la scena di lei che gli sfila la spada e con essa lo penetra nella pancia... Basterebbe questo per amare il film eppure c'è un'ampia parte della critica e del fandom che lo accusano di aver tradito la saga di Lucas, ma allo stesso tempo di aver negato il capitolo precedente, oggetto della stessa accusa di tradimento. Un ossimoro non da poco. E lo accusano pure di poco coraggio. Ma la realtà è che probabilmente solo Abrams poteva avere il coraggio di concludere una saga entrata nel mito con nove episodi (più spin off), che ha visto sceneggiatori e registi gettare la spugna o essere allontanati. La battaglia finale del film è un parallelo con la sfida per realizzare il film.
Si è dovuto recuperare gli spiriti dei jedi passati e le voci dei loro interpreti; si è dovuto recuperare ogni astronave possibile, da quella che apriva il primissimo film, a quella protagonista di una delle serie animate. La situazione è disperata: l'effetto nostalgia è scemato facendo uscire cinque film in quattro anni (pessima strategia), Lucas si è arrabbiato perché non hanno preso la sua sceneggiatura, Hamill ha poco gradito bere latte munto da alieni come un alcolizzato, e tutti commentano nel fondo nero dei social, come gli spiriti dei sith negli spalti di fronte a Palpatine. Ma la dipartita (filmica) di Leia, l'arrivo di Lando con la flotta sulle note della famosa marcia scritta da Williams 42 anni fa, e Rey che alla fine osserva i due soli di Tatooine, regalano emozioni e forse qualche lacrima.
“Io sono Skywalker”, afferma Rey.
La missione, pur con difficoltà, è compiuta.


domenica 22 dicembre 2019

PARASITE di Bong Joon-ho

Trovare un film oggi che sappia divertire, angosciare, ed allo stesso tempo porre un ragionamento critico sulla società di oggi non è facile.
Parasite di Bong Joon-ho ci riesce, meritandosi pienamente quindi il riconoscimento della Palma d'Oro ricevuta a Cannes.
Al centro di questo film troviamo una famiglia (padre, madre, figlio e figlia) di truffatori che vive letteralmente in un sotterraneo di una periferia coreana. Riusciranno, con vari escamotage più o meno scorretti, ad inserirsi come inservienti nella casa di una ricca famiglia (i “parassiti” del titolo). Sembra una truffa riuscita, finché non vi è un colpo di scena che destabilizza la situazione, trasformando quella che fino a quel momento era una commedia politicamente scorretta in un thriller fatto di suspense e di metafora sociale.
Il regista coreano già in Snowpiercer aveva fatto una rappresentazione delle disparità sociali, in cui lotta di classe aveva una rappresentazione fantascientifica. Qui invece ritorna al mondo reale in una raffigurazione grottesca, che ci racconta come l'assenza della lotta di classe, o della giustizia sociale, porti ad altre forme di alienazione, esclusione, sfruttamento e violenza. Un duro atto di accusa verso il capitalismo, che porta a fenomeni violenti tra i sud coreani (che più sono ricchi più sembrano presi da forme depressive), non molto diversamente dai loro cugini del nord, presi in giro in una delle scene. E ci racconta come tutti siano dei sommersi: i poveri per la loro condizione sociale, i ricchi per la loro condizione psicologica.

domenica 10 novembre 2019

C'ERA UNA VOLTA AD...HOLLYWOOD Di Quentin Tarantino

Per Tarantino la Hollywood di fine anni sessanta era come il vecchio west, e gli attori da B-movie e i loro stuntman i comboy di quel mondo.
Così infatti sembrano muoversi i protagonisti interpretati da Brad Pitt (lo stunt) e Leonardo Di Caprio (la ex-star), tra set cinematografici e ranch della frontiera. E l'arrivo di Pitt al ranch occupato dalla famiglia Manson (la setta che nel '69 compì degli omicidi tra cui quello dell'attrice Sharon Tate), ha tutti gli elementi del classico arrivo dello straniero giustiziere nell'ennesimo villaggio del far west che ha qualcosa da nascondere. Parallelamente Di Caprio nella parte dell'attore in crisi sembra un cow boy decadente in un western crepuscolare.
E non è un caso se è questo l'unico genere cinematografico in cui riesce a trovare ingaggi. 



Ma nonostante queste premesse, le continue citazioni di Sergio Leone, e il fatto che sia di Tarantino, questo è uno dei film del regista americano con meno azione, se si toglie l'esplosivo ultimo atto.
Infatti, alla fine, è forse la sua opera più personale, pensato in primis per essere un sentito tributo: da una parte un omaggio ad un mondo che non c'è più, dall'altra un omaggio ad una persona che non c'è più.
Il mondo che non c'è più è proprio quella fetta di immaginario composto da cinema di serie B, fatta in USA ma anche in Italia con registi come Corbucci, e da un pezzo di televisione con telefilm classici che pocco hanno a che fare con la serialità odierna di Netflix. E la stessa categorizzazione “di serie B”è più che altro una tipica caratterizzazione classista da società capitalista, in cui anche i critici più esperti a volte ci cadono. Tarantino non ci è mai cascato (al costo pure di rivalutare a volte ciò che non può essere rivalutato), ed è così che mette sullo schermo questa ballata di un “ultimo” che fa lo stuntman, vive in un camper, e fa da assistente ad un altro ultimo, attore fallito, che ha la villa a Bel Air, ma non se la può mantenere. La villa ovviamente è uno status symbol, e lì a fianco c'è chi il successo lo vive veramente: Roman Polanski e la sua bella moglie Sharon Tate. E poche colline più in là ci sono gli invasati figli dei fiori della Famiglia Manson che predicano libero amore ma che vogliono fare esplodere la società classista e guerrafondaia. Ma Tarantino non è Tim Burton, e non è nemmeno il Todd Philips di Joker, e per i freak non ha empatia. O almeno non per questi freak, visto che i loro omicidi hanno posto metaforicamente fine ai sogni degli anni sessanta.
La persona che non c'è più è Sharon Tate, la vittima più illustre di quei omicidi. L'omaggio che le fa Tarantino vale più di un classico biopic. Grazie anche alla bravura di Margot Robbie che la interpreta, qui la Tate diventa incarnazione della bellezza e della gioia del cinema. Basti la scena in cui va a vedere la stessa pellicola da lei interpretata, con la vera Sharon sullo schermo, e la Robbie in sala per capire come questo film sia una celebrazione di questa arte e di quella donna allo stesso tempo.
Peccato che questo personaggio non incontri, se non alla fine, Pitt e Di Caprio: Tarantino ha il pallino di non rispettare mai i canoni del racconto, affascinato dalle trame parallele che si limitano a sfiorarsi (Unglorious Basterds, Pulp Fiction), e non sempre è un pregio. Ma per il resto vi sono montaggio, fotografia e colonna sonora da manuale di cinema. Guardare C'era una volta ...ad Hollywood è una gioia appagante per chi ama i film, così come era fastidiosa la visione di Hateful Height.
Per la parte della recitazione non si può che incensare i tre attori protagonisti: la già citata Margot Robbie; Leonardo Di Caprio in un già collaudato personaggio schiavo degli eccessi; ma soprattutto Brad Pitt, mai così efficace dai tempi di Fight Club.
Sulla trama non scriviamo nulla di più, per evitare problemi a chi non lo ha ancora visto. Sappiate comunque che questo è un film ambientato nello stesso universo alternativo, creato da Quentin, in cui Hitler moriva ucciso in un attacco dentro un cinema. Per cui non date nulla per scontato.